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venerdì 26 Aprile 2024




#25novembre - “Per sconfiggere la violenza sono necessari una Rete e un Lessico Condiviso”

Il professore Raffaele Sibilio ci parla di diseguaglianza e violenza di genere

raffaele sibilioTroppo spesso si affronta il tema della violenza sulle donne senza tradurre la denuncia in azioni concrete e condivise di prevenzione e di contrasto. Sui media campagne contro la violenza sono affiancate da programmi e pubblicità dove la donna è rappresentata come oggetto.

Manca innanzitutto un lessico condiviso e un lavoro di rete per prevenire e contrastare il fenomeno. Con Raffaele Sibilio affrontiamo il tema della disuguaglianza e della violenza di genere da un punto di vista sociologico.

Il professore di Sociologia generale e sociologia delle istituzioni del Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche della Federico II si sta occupando della formazione degli operatori dello Sportello Antiviolenza- Spazio Donna che rientra nei servizi di prevenzione e contrasto alla violenza di genere dell’Ambito Territoriale 12 (Pozzuoli, Bacoli e Monte di Procida).

È da tempo che lei si sta occupando del tema delle diseguaglianze di genere e della violenza sulle donne, in che ambito?
In particolare mi occupo di sociologia della famiglia. La famiglia è diventata il luogo del conflitto, siamo nel pieno della crisi economica, in una società in rapidissima evoluzione e di trasformazione che quindi produce uno stress crescente. Ci troviamo in una situazione di anomia: i valori di riferimento precedenti sono stati persi e non sono stati ancora creati nuovi valori e nuove norme condivise.

Come si inquadra la violenza sulle donne nella società anomica?
Spesso sono state fatte analisi mono fattoriali che tenevano conto solo delle reazioni violente in un ambito socio-culturale privato, mentre le ricerche hanno esso in evidenza come oggi la violenza sulle donne sia un fenomeno trasversale alle classi sociali e vada inquadrata ragionando sui ruoli sociali in mutamento.
Il potere maschile è stato per secoli autolegittimato da una cultura maschile del dominio che relegava le donne in ruoli sociali marginali e meno significativi. Questo sistema è andato in crisi producendo il conflitto. Da un lato persiste la socializzazione maschile finalizzata a processi competitivi, dall’altro lato la donna lavora su processi di emancipazione e uguaglianza di diritti e pari opportunità. Più diminuisce il grado di interiorizzazione del ruolo di genere tradizionale legato al sesso da parte delle donne più aumenta l'aspettativa rispetto al proprio ruolo sociale, più aumentano le problematiche di relazione e la violenza di coppia. Una violenza repressiva da parte degli uomini che non dominano più e si sentono dominati e non sentendo più legittimato il loro potere ricorrono alla violenza e una violenza difensiva da parte delle donne che hanno la coscienza di non essere più il "sesso" debole.
Il tutto va inquadrato in un contesto sociale precario: lo sfaldamento delle sicurezze economiche e la precarietà esistenziale impediscono di guardare il futuro nell’ambito lavorativo, ecco che l’uomo si sente debole poiché ha perso ancoraggi nel mondo esterno e al contempo ha perso terreno nel luogo in cui si sentiva forte poiché considerava la donna una sua proprietà. La donna è oggi parte del mondo esterno, ha un suo ruolo sociale, una sua identità al di là dell’uomo. 

Eppure è dagli anni '60 che le donne lottano per un cambiamento. Perché siamo così indietro?
Le stesse donne tendono a sottovalutare i fenomeni di violenza, perché hanno sperato che tutto questo potesse cambiare. Ma la prima causa di morte delle donne è ancora la violenza. Se volessimo parafrasare le teorie del conflitto, dovremmo considerare che la differenza di prospettiva tra due parti genera disarmonia: il conflitto nasce dai diversi interessi nella ricostruzione del ruolo. Come diceva Marx c’è chi possiede e chi non possiede. In tutte le battaglie in cui c'è un dominante e un subordinato il cambiamento avviene sul lungo periodo: la prima fase è quella della contrapposizione, in cui il soggetto subalterno cerca di raggiungere la posizione di eguaglianza e chi era dominante cerca di ristabilire il potere con la forza, poi c'è la fase successiva del riconoscimento da parte di chi era dominante di una perdita di supremazia e di potere. Infine si deve trovare un nuovo assetto. Oggi siamo ancora nell’occhio del ciclone: non abbiamo ancora elaborato un’idea precisa di ruoli di genere perché il progetto di cambiamento non è condiviso.

Come si traduce questo in termini di ruoli sociali?
C'è un grande gap economico-sociale tra il ruolo sociale degli uomini e quello delle donne. Ad esempio ho fatto un lavoro in Puglia sulle disuguaglianze di genere da cui è emerso che le donne hanno una retribuzione del 20-25% inferiore a quella degli uomini a parità di ruolo lavorativo. Ma ancora prima c'è l'inaccessibilità di alcune posizioni e quindi di accesso alle ricompense sociali da parte delle donne.
Prima degli ostacoli materiali alla parità ci sono quelli di natura culturale.

C'è ancora una cultura dominante maschile?
L’immaginario collettivo alimentato dalla comunicazione massmediatica è quello delle donne considerate come oggetti, penso a pubblicità diffusissime come quella degli impianti il cui appariva una donna nuda e la scritta “montami a costo zero”, ma anche a molti programmi dei canali Mediaset a partire da quello con le letterine che trasmettono l’immagine di corpi in “offerta speciale”.
Ma penso anche alle Università, sedi della ricerca e del progresso in cui si struttura l’identità di genere, dove invece si indicono concorsi di bellezza. Ecco che il corpo della donna è considerato un oggetto: esposto, venduto, ferito, violentato. C’è un gap incredibile tra il sistema dei valori e i modelli di comportamento. Se da un punto di vista lessicale sono messi in campo certi valori e vengono realizzate certe battaglie nel quotidiano quei valori non sono agiti. Mentre in termini di comunicazione di massa l’importante è ciò che fai, non quello che dici. La rappresentazione della donna nei media di fatto incide sull’immaginario collettivo più delle norme.  

Bisognerebbe agire sull’educazione primaria, dunque?
Se il problema è multifattoriale, la risposta deve essere multifattoriale. Il lavoro va fatto a livello educativo, non basta l’educazione primaria, devono intervenire le istituzioni con una rete forte che riconosca l’uguaglianza agendo sulla prevenzione e la repressione oltre che sull’educazione. Il problema è proprio che la risposta istituzionale è spesso troppo frammentata e non si riescono a patrimonializzare le esperienze. Emblematica è la questione del welfare: nella storia recente ci si è preoccupati più di chi dovesse decidere politicamente come risolvere la crisi che sul progettare percorsi per riformare il welfare. Bisogna trovare modelli di governance che lavorino sui processi di innovazione sociale, con una progettualità diffusa, partendo da proposte sociali condivise. Prima di fare questo bisognerebbe raccogliere una serie di dati e di informazioni e metterli insieme perché se non conosciamo la situazione integrata perdiamo di vista il problema. Spesso si parla di carenza di fondi, tuttavia l’investimento delle risorse disponibili produce un effetto minore e diluito poiché il lavoro non è coordinato. Bisognerebbe invece lavorare sulla comunicazione inter istituzionale, l’identificazione delle competenze in base alle attività da intraprendere e come le norme esistenti possono facilitare la realizzazione dei progetti.

Quali sono le soluzioni sociali praticabili per fermare la violenza?
Bisogna costruire un percorso metodologico comune della rete in modo da condividere e patrimonializzare le informazioni e trasformarle in azioni coordinate e condivise.
Bisogna iniziare a parlare lo stesso lessico. Bisogna uniformare il linguaggio, per capire quando ci sono segnali di violenza sopiti e agire subito. Spesso si considera solo la violenza fisica e per questo si interviene quando è troppo tardi. A Bologna è stata fatta una ricerca basata su una grande casistica che distingue tra tanti tipi di violenze: da quelle fisiche, a quelle psicologiche che vanno dal controllo alla svalorizzazione del modo di fare delle donne, al rompere gli oggetti che hanno valore per loro, alla violenza economica, fino alle violenze sessuali. I comportamenti violenti non sono imprevedibili, vanno per fasi, con un’escalation dei fenomeni. La rete può fare la differenza nel prevenire i fenomeni  e nel capire quali progetti mettere in campo nelle diverse fasi. I segnali in ogni caso si vedono prima e la polizia ad esempio potrebbe lavorare in uno scenario di prevenzione e di sensibilizzazione delle donne a parlare. Fondamentale è l’ascolto, dico sempre che non è un caso che abbiamo due orecchie e una bocca. Bisogna sempre ascoltare molto prima di intervenire.

Tutte le politiche che si occupano di violenza di genere mettono in atto azioni per le donne, ma nessuna per il recupero degli uomini violenti. Come mai?

Gran parte delle politiche di welfare sono collegate al soggetto più debole. Nel caso della violenza l’uomo è molto più resistente al cambiamento e quindi l’unico modo per riabilitare gli uomini è riabilitare le donne. In alcuni casi possono essere valide le terapie familiari sempre se l’uomo è disposto a mettersi in discussione. Non bisogna dimenticare il problema delle altre importantissime vittime della violenza di coppia: la ricaduta della violenza assistita sui minori è molto grave e cresce col crescere della violenza, gli effetti sebbene possano essere silenziosi nel primo periodo, si alimentano nel lungo termine.

Alessandra del Giudice

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