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Martedì 30 Aprile 2024




Dall'Africa a Napoli, l'odissea di 87 minorenni

Le storie dei minori africani giunti a Napoli domenica da Lampedusa.

immigrati-barcone“Erano timorosi, credevano che fossimo dei poliziotti e avevano paura”, raccontano gli operatori del Colosimo. Scortati all’arrivo da uomini in divisa i ragazzi tunisini pensavano di essere finiti in una caserma. Ci sono volute alcune ore e l’intervento dei mediatori culturali per convincerli che non fosse così.

Nell’istituto per non vedenti di Santa Teresa degli Scalzi sono ospitati ventuno degli ottantasette minori non accompagnati sbarcati domenica in città da Lampedusa. In quaranta hanno trovato accoglienza nel centro “Le Palme”, nove in una struttura del beneventano, e in diciotto sono stati alloggiati in Case Famiglia.

Il Comune è stato allertato quando la nave era già diretta a Napoli. “In sole ventiquattro ore abbiamo attivato le nostre strutture che avevano disponibilità di posti letto, e messo in moto la rete di educatori e mediatori culturali”, ha spiegato l’assessore alle Politiche Sociali Sergio D’Angelo. Quegli ottanta ragazzi, però, erano sbarcati a Lampedusa già all’inizio di maggio e per i due mesi successivi avevano vissuto reclusi nei campi recintati. Perché tanto tempo allora? L’emergenza è una risposta che non soddisfa. La legge impedisce il rimpatrio dei minori, che vanno accolti in strutture idonee. Anche in mancanza di documenti vale la presunzione di minore età. E a vederli nessuno di quei ragazzi dimostra più di 16 anni.

Se i viaggi sulle carrette di fortuna attraverso lo stretto di Sicilia mettono i brividi, le storie del periodo di permanenza a Lampedusa sono inquietanti. “Ci davano pochissima acqua e non avevamo ripari dal sole. Per me Lampedusa è solo una rete e l’incubo che c’ho vissuto dentro”, racconta Najib. “Da subito ho detto di avere 15 anni, ma nessuno mi ascoltava. E quando insistevo gli uomini in divisa mi minacciavano”, spiega Facel. Di botte parla Messouaud, mentre gli altri annuiscono: “Più passava il tempo e più ci trattavano male. Alcuni di noi sono stati picchiati con i manganelli semplicemente per aver chiesto più forte quando ci avrebbero fatti uscire>. Tutti concordano con Ahmed: “Sapevamo che anche arrivati in Italia sarebbe stata difficile, abbiamo messo in conto il rischio, ma non ci aspettavamo cose così”

Gli istituti che li ospitano attualmente sono “strutture ponte”. Entro dieci giorni i ragazzi dovrebbero essere affidati a famiglie o case alloggio. Intanto gli operatori procedono con le interviste per capire caso per caso quale sarà la soluzione migliore. Alcuni potranno ricongiungersi a familiari già da tempo in Italia. Degli ottantasette, i più insofferenti sono i tunisini. In dieci si sono allontanati dal Colosimo: “Non abbiamo potere coercitivo – spiega il direttore Luca Sorrentino – gli abbiamo spiegato che devono aver pazienza e che se seguono l’iter sarà più facile per loro avere i permessi. Spero che decidano di tornare, ma sono obbligato a segnalare il fatto alle autorità”. “Se scappano – aggiunge Glauco, mediatore culturale – rischiano di perdersi nella rete dell’irregolarità che in questo Paese può significare una vita difficilissima”.

A “Le Palme” e nelle altre strutture sono ospitati ragazzi del Corno d’Africa e degli Stati sub sahariani: da Somalia, Gambia, Mali, Senegal e Costa d’Avorio. Molti di loro hanno affrontato il lunghissimo e pericolosissimo viaggio attraverso il deserto per raggiungere le coste libiche. “E adesso dove ci portano?” chiedono sei ragazzi somali appena capiscono che Hawa, la mediatrice culturale parla la loro lingua. “E adesso dove ci portano?” Da molto ormai dove restare e quando partire non lo decidono più.

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