I ristoranti etnici a Napoli

Se il cibo è uno dei primi veicoli di integrazione interetnica è anche vero che molti ristoranti sono punti di riferimento chiusi per le comunità stanziali presenti nei quartieri cittadini e spesso fungono da luoghi di ritrovo, centri di informazione, sale per giocare a carte. La ritrosia dei gestori a raccontarsi o a dire il proprio nome trasmette l’idea di violare un’intimità e un’identità spaziale costruita con anni di sacrificio, al prezzo dell’ostilità, se non del razzismo napoletano. Hanno chiaramente rifiutato di essere intervistati i gestori dei diversi ristoranti clandestini impiantati nelle abitazioni o nei bassi intorno alla stazione.

In via Correra 247, di fronte piazza Dante è diventato ormai un must per turisti, immigrati e abitanti del centro storico la piccola rosticceria gestita da Abeysinghe e Rasika, una coppia dello Sri Lanka approdata a Napoli nel ’97 per lavorare come badanti mentre nel loro paese c’era la guerra. In bella mostra nella vetrinetta ci sono i triangoli fritti con tonno, i panini al tonno, gli involtini con carne e verdure rigorosamente piccanti, come da tradizione. “Per gli italiani dimezzo la quantità di polvere di peperoncino, ma se me lo chiedono cucino piatti senza forte. Molti studenti vengono qui a comprare il nostro riso con verdura e carne, un piatto completo ed economico”- racconta Rasika, il viso da ragazzina, 37 anni svelati dagli occhi dolci e tristi di chi non può crescere i suoi bambini di 7 e 10 anni nati a Napoli e che ora vivono con la nonna in patria. Ha un’ernia che operare sarebbe rischioso e dentro una voglia di ritornare in patria che urla, a dispetto della sua voce calma. “Quando stavano qua non potevo neanche portarli al parco lavorando anche la domenica. I figli hanno bisogno di una guida accanto. A Napoli potevano prendere una cattiva strada, la città è pericolosa. All’inizio mi guardavano male, adesso nel quartiere mi conoscono e mi salutano”- continua Rasika. Suo marito Abeysinghe, 37 anni, sembra contrario all’idea di lasciare Napoli: “Abbiamo fatto tanti sacrifici, ora il negozio va bene, abbiamo quasi 1000 clienti, organizziamo anche catering e cene a menù fisso per 12 euro. E’ un modo per far conoscere la nostra cultura agli italiani ed integrarci”.

Sembra uno strano paradosso: nelle strade che intorno alla stazione portano i nomi delle maggiori città italiane è quasi impossibile incontrare italiani, soprattutto di sera. In Via Venezia 31, c’è Sylvestina Holding, che, a dispetto del nome est europeo, è un mini market-tavola calda nigeriano; il proprietario è diffidente, si trova in Italia da 17 anni, ha 4 figli ed offre piatti classici africani come riso e fagioli ad una clientela di africani e a qualche loro amico italiano; è difficile che gli italiani si spingano fin qui.

In via Bologna 45, da 3 anni ha aperto i battenti Loty, una corpulenta donna senegalese che in una stanzetta senza nome sfama i suoi connazionali, e non solo, con abbondanti porzioni di carne grigliata, riso con pesce, jassa (una salsa a base di cipolle e carne) e mafè (condimento elaborato per il riso o il miglio a base di paste di arachidi, verdure e carne di montone). In via Torino il kebab è un piacere a cui difficilmente si può resistere: sulla strada, di fronte la CGIL, si incontra l’ampia sala di El Merhaba, che, aperto 12 anni fa da un algerino, offre il kebab di pollo. Il locale, aperto dalle 11 di mattina alle 11 di sera è chiuso solo la domenica a mezzogiorno; grazie al maxischermo e alla connessione con il satellite, di sera, si trasforma in un allegro club di tifosi di calcio, rigorosamente uomini. Pochi passi più avanti c’è El Quod, il primo ristorante di kebab napoletano, aperto nel ’90 da due fratelli tunisini giunti in Italia negli anni ’80. Uno dei due, racconta: “Quando abbiamo aperto non c’era nessun ristorante africano in Italia. All’inizio i napoletani passavano e si coprivano la faccia dicendo “che puzza”, i primi clienti sono stati quelli che avevano viaggiato in Africa ed erano felici di ritrovare la cucina che avevano amato. Siamo stati i primi a mettere la macchina per il kebab e la gente si fermava e chiedeva “cosa è quella cosa che gira?” e così è arrivato il successo. Noi preferiamo il kebab di agnello, ma in Italia sarebbe troppo caro: dovremmo far pagare il panino 4 euro invece di 3 e allora ci sarebbe la rivoluzione!”. La tavola calda offre un menù che va dai piatti magrebini: il tajine, il cous cous di carne e di pesce, il brik (un involtino di frittata con carne macinata, patate, parmigiano e olive) ai piatti sud sahariani come il riso con salsa e carne di agnello, per finire con un’ampia scelta di dolci. Il proprietario sostiene che “se fai amicizia con un napoletano dopo 50 anni non sai se ti è amico o ti volta le spalle. I napoletani fin da piccoli sono abituati ai genitori che dicono “scappa scappa, c’è un marocchino”.

Alla destra della stazione centrale, in via Giuseppe Pica, 54, da poco più di un anno ha aperto Le Dogonne (prende il nome da un popolo del Mali che costruisce splendide abitazioni in bambù) un ristorante ivoriano gestito da Savanè Afu, e da suo marito della Costa D’Avorio. La donna ha importato in Italia la passione delle donne di famiglia per la cucina proponendo ricette semplici e genuine come il cous cous, il riso con salsa di montone, il pesce tilapia. “Quando i miei figli di 12 e 9 anni, che vivono in Africa, verranno a sostituirmi, io potrò tornare in Africa a riposarmi e a pregare. Vivere a Napoli non mi piace, gli italiani ci guardano come animali, invece dovrebbero capire che quando loro vanno a vivere in altri paesi non vengono trattati così male”.

Sembra perfettamente integrato Mekonen Ghebremedhir, il presidente della comunità eritrea dal volto scuro e minuto solcato dalla Storia; giunto a Napoli nel ’76, quando nel suo paese c’era la guerra, nel ’92 ha creato il ristorante Mar Rosso in vico Sergente Maggiore 14. Il ristorante è anche sede dell’associazione eritrei di Napoli e Mekonen oltre a cucinare e servire ai tavoli fornisce consulenza e aiuto ai migrati. La particolarità del posto è che non c’è l’imbarazzo della scelta: viene servito un unico piatto posto al centro della tavola che poi viene mangiato con le mani. Si tratta di una sottilissima e morbida piadina con farina integrale su cui vengono adagiati la carne, la salsa, l’insalata e la crema di legumi. E’ un piacere dialogare delle relazioni geopolitiche internazionali con Mekonen che quando parla del suo paese si emoziona “gli americani non hanno capito che non devono aiutarci con prodotti, ma con macchinari, per diventare indipendenti!”. E non potremmo terminare non citando uno dei numerosissimi ristoranti cinesi. La scelta è veramente ardua, c’è da dire che molti hanno chiuso con la crisi o si sono trasformati in giapponesi anche se lo chef difficilmente lo è, come lo Zen 2, in vico della Quercia 5, che fa parte di una catena e offre un sushi ottimo e competitivo, rispetto all’offerta napoletana, ed è gestito da un giovane cinese.

Tra i cinesi rimasti fedeli alla cucina nazionale il Drago D’Oro aperto 12 anni fa- quando c’erano solo 3 o 4 cinesi a Napoli- da Shu Shi, splendida 42 enne, che svela di possedere una pelle perfetta grazie all’alimentazione e al poco sole, e da suo marito che è anche il cuoco, in via del Chiostro, 21. Nel tempo il ristorante ha acquisito una clientela stabile di persone da zero a 80 anni grazie ad una cucina popolare cinese leggera e saporita in cui spiccano i ravioli con gamberi e carne, gli involtini primavera e il pollo con verdure miste. La figlia di Shi studia alla Luis, mentre il figlio della sorella, che serve ai tavoli, studia alla Bocconi ed entrambi sono cresciuti e vogliono restare in Italia.

Nei piatti dei ristoranti etnici c’è la voglia di regalarsi e regalare un pezzo del proprio paese lontano ma anche il sacrificio di tanti uomini e donne che pur di riuscire ad andare avanti dignitosamente vivono lontani dagli affetti, in un luogo che non è né Italia né patria. E’ un altrove dove sapori e odori costruiscono i ricordi e le speranze.

Alessandra del Giudice

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