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Materiali dispersi

Un luogo e un tempo per la follia e la finzione

materiali dispersiFrammenti, sguardi, attimi bestiali che svelano vite spezzate fin dalla nascita o talvolta ineccepibili. Vite tragiche spesso dimenticate. Vite senza un luogo e senza un tempo se non quello sospeso della follia o della finzione. Ventuno storie vere quelle raccolte e raccontate da Adolfo Ferraro, direttore dell’OPG di Aversa, in “Materiali Dispersi. Storie dal manicomio criminale” uscito per Tullio Pironti Editore (2011). Un libro dedicato ai diseredati dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa istituito nel 1876 con un semplice decreto amministrativo per raccogliere i “folli rei”, malati mentali che avevano commesso un delitto, e i “rei folli”, detenuti che impazzivano in carcere.

Centosettantotto pagine che si leggono tutte d’un fiato, e che lasciano senza fiato sia per la materia  oggetto dei racconti: violenta, dolorosa, cruda,  sia per il ritmo avvincente e la capacità narrativa che le contraddistingue.

Le storie narrate in modo preciso, quasi giornalistico, raccontano del manicomio criminale anche se non c’è una riflessione esplicita su di esso, così come ci si aspetterebbe da uno psichiatra, nonché direttore di OPG e docente di psichiatria forense pressola Seconda Universitàdi Napoli. Ma è proprio questa la forza del libro: partire da materiali “dispersi” e compattarli per raccontare storie a partire dalle quali il lettore stesso è invitato ad una riflessione, ed è mettendo insieme le storie, che si riesce a tessere la storia dell’OPG. Il libro apre squarci e interrogativi su un luogo dalla doppia identità: carcere e manicomio: un’ambiguità irriducibile. Ambiguità descritta nella storia di Cristiano-Cristina, trans che ruba un’autoambulanza perché al pronto soccorso nessuno vuole aiutarla per un attacco di panico: “produceva disagio solo a guardarla. Era la rappresentazione senza mediazioni dell’ambiguità, quella stessa ambiguità su cui si basavano altre consuetudini nel manicomio criminale e che nessuno voleva vedere … La sua presenza turbò, insomma, non tanto per la sessualità che mostrava quanto per l’ambiguità che produceva, e che metteva in evidenza l’ambiguità di tutti”.

Quelle degli internati sono esistenza sospese e fuori dal tempo: si entra nell’OPG ma non si sa quando e se si uscirà. Gli internati sono collocati nel manicomio perché non può esserci una collocazione adatta a ciascuno di loro,  perché ognuno ha psicosi diverse e ognuno un grado diverso di pericolosità sociale. C’è anche chi come Roberto compie una strage in seguito ad una depressione determinata dall’essere un usurato e chi commette un delitto atroce a sangue freddo perché ha covato rabbia verso il prossimo per oltre vent’anni come Daniela. C’è chi esce perché non è più ritenuto pericoloso per gli altri e nel mondo fuori, non trovando una struttura sociale ad accoglierlo fa una brutta fine come Filippo che inghiotte qualsiasi cosa per protesta e privo di controllo muore soffocato.

Ed è sempre attraverso le storie che Ferraro - entrato nell’OPG quando “la struttura psichiatrico-giudiziaria di Aversa stava uscendo da uno dei tanti momenti neri della sua storia, all’epoca caratterizzato da direttori suicidi, inchieste della procura della repubblica per ipotesi di violenza sui reclusi, evasione di camorristi che si fingevano pazzi” -denuncia i metodi e l’inadeguatezza dell’ OPG. E’ il caso della storia di Massimo che strappa gli occhi al compagno di cella, o di Antonietta legata al letto del Manicomio Criminale di Pozzuoli per contenere le sue crisi aggressive e che “non sapeva che i materassi, che dovevano essere ignifughi per legge, per risparmiare erano stati comprati in gommapiuma scadente, ancora più facilmente infiammabile”, così essendo riuscita ad accendersi una sigaretta muore carbonizzata dopo una settimana di atroci sofferenze.

Nella prima parte del libro ne “le Tragedie” e “i Delitti” vengono raccontate, in modo semplice e preciso, anche terribili storie di cronaca che messe insieme coprono un secolo, tra cui quella di Luciano Luberti “boia di Albenga”, di Leonarda Cianciulli, “saponificatrice di Correggio”, della contessa Pia Bellentani o di pericolosi serial killer con movente sessuale come Giancarlo Giudici o Andrea “il mostro di Posillipo”. Alcune storie narrate sono parte della “storia” italiana del ‘900 che appare ricostruita con precisione sullo sfondo: quella del fascismo e le nazismo, dei servizi segreti deviati e delle stragi, della camorra.

Tutti i personaggi descritti sono internati nell’OPG, anche se non tutti sono malati mentali (il codice Rocco regolarizzò l’aspetto giuridico nel 1930 stabilendo che chi incapace di intendere e volere avesse commesso un reato non essendo punibile con il carcere, allorché socialmente pericoloso fosse internato per 2, 5 o 10 anni): ci sono anche nobili potenti e camorristi simulatori che pur di non andare in carcere sono riusciti, grazie a bravi avvocati, ad essere internati: “tra i più di mille internati che negli anni sessanta e settanta del secolo scorso sono quotidianamente ospiti del manicomio criminale, quasi la metà è composta da individui che sono delinquenti, mentre i folli veri non godono di alcun beneficio e vivono in padiglioni isolati dal resto dell’istituto dove vengono ammassati l’uno sull’altro e la cura è solo la contenzione e il controllo”; paradossale la storia di Cutolo, il professore rispettato, che entra ed esce dall’OPG con la connivenza del personale.

Nell’ultima parte, quella delle “Vite brevi” si narrano altre storie ignote che per le loro particolarità sono forse anche più avvincenti della trama di un romanzo: è il caso della storia di Mario, disegnatore sordomuto di madonne, o Maurizio truccatore delle dive.

Il libro, sebbene abbia un fondo storico, ci lascia con tanti interrogativi e poche speranze sul presente di quanti abitano gli OPG. “Ogni tanto qualcuno ne chiede la chiusura denunciando situazioni deprecabili, a volte vi accadono cose straordinarie, e spesso altri lo utilizzano  come luoghi per realizzare i propri interessi. Tutti però alla fine individuano negli internati che sono chiusi lì dentro la materializzazione delle proprie paure”.

Alessandra del Giudice

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