Il quartiere non dimentica. Ha una sorta di memoria costruita su gesti quotidiani, sui tratti somatici delle persone che lo abitano, sul loro percorrere sempre le stesse strade agli stessi orari. Alla fine degli anni Novanta a Cavalleggeri d'Aosta, rione popolare di Fuorigrotta, non c'era nessuno che non conoscesse Domenico.
Appena diciottenne era riuscito con fatica, buona volontà e l'aiuto di una maestra paziente sua vicina di casa, a prendersi la terza media. Domenico, che probabilmente aveva una strana forma d'autismo e forse qualche ritardo mentale, viveva in un mondo tutto suo, fatto delle amorevoli cure della madre, del minimarket sotto casa, dove per un paio d'ore al giorno aiutava prima dell'apertura a mettere a posto la merce sugli scaffali, e del suo grande amore: la radio. Viveva al quinto piano di un edificio popolare che affacciava su una strada principale, piena di negozi e sempre molto affollata, e subito dopo aver finito il turno di lavoro correva a casa, accendeva la radiolina portatile da cui mai si separava e,affacciato alla finestra, sporgendosi oltre il davanzale, e, faceva la sua personale radiocronaca dei programmi di Radio RAI. E così il quartiere risuonava della sua voce per circa otto ore, intervallate da una veloce pausa pranza e da un sonnellino pomeridiano, sovrapposta al rumore delle automobili, al vociare delle donne che facevano la spesa, al richiamo del fruttivendolo ambulante e dell'arrotino, al cicaleccio gioioso dei bambini che uscivano da scuola. Su tutto dominava la colonna sonora di cui Domenico era artefice: le previsioni meteo con divagazioni calcistiche, una canzone dedicata a sua madre, i bisticci unilaterali con un commentatore radiofonico che non gli era simpatico. Domenico è stato la voce di Cavalleggeri per oltre vent'anni.
Recentemente mi sono trovata in quella zona per una visita medica. Ne ho approfittato per tornare nei luoghi dell'infanzia e dell'adolescenza, per vedere il palazzo dove aveva abitato per mezzo secolo mia nonna, guardare dalla strada il balcone di una casa in cui ancora mi ritrovo nei sogni. Camminando per le strade mi è sembrato di non esser mai stata lì: i negozi ormai del tutto diversi, i grandi supermercati e i “tutto a 50 centesimi”, le attività storiche con le vecchie insegne ma con le saracinesche abbassate mi restituivano un fotogramma sconosciuto in una pellicola di una film che avevo rivisto mille volte. Ma soprattutto, Cavalleggeri aveva perso il suo suono: nonostante i rumori tipici di un quartiere molto popoloso era, al mio orecchio, muta. Assorta in questi pensieri, ho finalmente riconosciuto una vecchia merceria che, in quel panorama tutto nuovo, sembrava un'oasi amica in un paesaggio straniero. Era una piccola merceria dove si serviva mia nonna e le mie zie, gestita da un anziano signore molto distinto e dalle bellissime mani, aiutato nel pomeriggio dal giovane figlio, un ragazzo timido pieno di lentiggini e dalla chioma tiziana. “Buongiorno” Sorrido all'uomo quasi cinquantenne che ha conservato dell'adolescenza solo la folta capigliatura rossa. “Posso avere un rocchetto di filo di cotone bianco?”. Mentre l'uomo cerca fra gli scatoli sugli scaffali mi decido a fargli la domanda, quella per cui cinque minuti prima avevo deciso che avevo bisogno di un rocchetto di filo di cotone bianco. “Mi scusi, io abitavo in questa zona quando ero ragazza. Ma che fine ha fatto Domenico, il ragazzo che parlava con la radio?”. Lui mi guarda come se volesse tentare di riconoscermi, ma si arrende subito. “Che strano, non ci pensavo da anni” mi dice. “Dopo la morte della madre aveva smesso di parlare con la radio. Si sentivano solo il sottofondo musicale e le voci dei commentatori, ma lui no. Era come se non avesse più nulla da dire. Poi sono venuti a prenderlo dei parenti del nord. E da allora di lui non si è saputo più niente”. Resta lì un attimo con lo scatolo in mano, lo sguardo che mi attraversa, assorto nei pensieri.
“Però, ma lo sa che da quando lui se n'è andato qualcosa qui è cambiato? È stato in quel momento che tutto è, diciamo, finito”. Ci guardiamo negli occhi: lui è tornato il ragazzone dai capelli rossi, io la ragazzina dodicenne troppo alta per la mia età.
“Quanto le devo per il cotone?” gli chiedo. La nostalgia è ovunque. Ormai ho contagiato anche lui e, per qualche strano motivo, me ne sento in colpa.
“Niente signora. Glielo regalo”.