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Martedì 4 Ottobre 2022




Black lives matter,perché la Storia cambi colore

Black lives matterIl 1 settembre 2016, mentre i suoi compagni di squadra, mano sul cuore, ascoltavano l’inno americano, Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, si mise in ginocchio, su una gamba a testa bassa scatenando la reazione contrariata del pubblico. Nelle due partite precedenti, l’atleta era rimasto seduto in panchina e nessuno aveva notato il suo gesto; per questo, in una sera d’agosto, vigilia della partita, aveva confidato a Nate Boyer, ex giocatore di football ed ex militare che aveva preso parte a missioni in Afghanistan e Iraq, il suo desiderio di “protestare” in maniera significativa, per richiamare l’attenzione sulle violenze reiterate contro la comunità di colore.

Boyer, gli ricordò una foto iconica di Martin Luther King, a Selma, in ginocchio e in preghiera. Il gesto, dunque, non era mai stato inteso come mancanza di rispetto alla bandiera americana, ma come atto simbolico, pacifico e potente per protestare. A Kaepernick si unirono, di volta in volta, altri compagni, ma nel gennaio del 2017, nessuna squadra volle offrire un contratto al quarterback che, da allora, non ha più giocato professionalmente.

Black lives matter Colin Kaepernick

La NFL (National Football League), fortemente legata a Donald Trump, infatti, era riuscita, negli ultimi anni, a mettere a tacere del tutto quella protesta, stabilendo anche multe per chi avesse mostrato “mancanza di rispetto” verso la bandiera. Questo fino a venerdì scorso, quando il capo della federazione del football, Roger Goodell, ha pubblicato un video in cui chiedeva scusa a tutti per non aver ascoltato le proteste pacifiche dei giocatori e per aver sottovalutato l’entità del problema sul quale Kaepernick aveva attirato l’attenzione. Un annuncio arrivato in una serie di giornate intense, caratterizzate dalle proteste in tutta l’America, nate spontaneamente dopo il brutale omicidio di George Floyd, ucciso da Derek Chauvin, un poliziotto bianco, che per 8 minuti e 46 secondi lo ha tenuto fermo a terra, premendogli un ginocchio sulla gola, del tutto indifferente alle sue parole imploranti, “non posso respirare, non posso respirare”. Da due settimane, mentre i cortei, i sit in, le manifestazioni non accennano a diminuire, nonostante coprifuochi e cariche della polizia e migliaia di arresti, il Paese reagisce e le notizie che si susseguono sembrano indicare che questa volta, forse, si è disposti ad ascoltare quello che la comunità nera ha da dire.

Black lives matter è lo slogan simbolo di un movimento nato nel 2013, proprio per combattere le violenze della polizia verso la comunità nera e, ovviamente, ogni altra forma di discriminazione. In questi giorni di proteste, sono avvenute tantissime cose, alcune terribili come la carica della polizia contro i manifestanti pacifici di Washington, ordinata dalla Casa Bianca, per consentire al presidente di andare a posare per una foto davanti a una chiesa, e alcune positive, prima fra tutte l’arresto degli altri poliziotti presenti all’omicidio di George Floyd e l’accusa formalizzata contro Chauvin non più di omicidio di terzo grado, ma di secondo (quindi più grave). Anche il weekend è stato caratterizzato da imponenti manifestazioni come quelle di Washington, Philadelphia, New York, Chicago e San Francisco e questa volta, come hanno sottolineato molti attivisti afro americani «c’è una piccola luce di speranza, perché’ vediamo tantissimi bianchi dalla nostra parte». E, soprattutto, quei bianchi, che si dichiarano “alleati”, hanno compreso, forse per la prima volta, che poiché non è possibile capire cosa significhi essere nero, è  fondamentale tacere, ascoltare e lasciare che la Storia, finalmente, «cambi colore».

Magari cominciando a capire che mettersi in ginocchio non è un gesto di resa, né di mancanza di rispetto, ma l’espressione più alta di una resistenza che come ricorda John Lewis, eroe di Selma al fianco di Martin Luther King, «è un impegno che dura tutta la vita». E  che le vite dei neri contano.

Angela Vitaliano

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