di Angela Vitaliano
«Quando usciamo insieme succede sempre che qualche mio fan si avvicini e lei è proprio di fianco a me. E loro cominciano a dire, “Hey, devi fare un figlio maschio. Tu e Vanessa (sua moglie ndr) dovete avere un maschio, qualcuno che possa raccogliere la tua eredità, seguire le tue orme”. E lei risponde “Hey, ci penso io, non abbiamo bisogno di un maschio. Ci sono io”». Kobe Bryant, aveva sintetizzato in questa frase, durante un’intervista con Jimmy Kimmel, l’essenza del suo rapporto con sua figlia Gianna, morta con lui e altre sette persone, domenica 26 gennaio 2020, dopo lo schianto dell’elicottero sul quale viaggiavano. Gigi, questo il diminutivo con cui era conosciuta la secondogenita della leggenda del basket, era determinata a seguire la carriera di suo padre, in alto, fino alla NBA, terza in una generazione di cestisti, cominciata da suo nonno Joe Bryant, che per otto anni aveva giocato a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e infine a Reggio Emilia. E proprio in Italia, dove era rimasto dai 4 ai 12 anni, Kobe aveva sviluppato il suo amore (ricambiato) per il calcio (domenica Neymar gli ha dedicato un gol, poche ore dopo la notizia della sua morte) e per una lingua che non avrebbe mai abbandonato del tutto. “Ti amo”, “tesoro” erano alcune delle sue parole preferite quando si trattava di parlare delle sue quattro figlie, inclusa la più piccola di soli sette mesi e che non potrà mai conoscere suo padre davvero. Quando la notizia della morte di Kobe è stata confermata, è sembrato che l’intero Paese si fermasse un attimo con il fiato sospeso con l’auspicio che si trattasse di una fake news di pessimo gusto; solo per un po’, il tempo sufficiente a capire che quello splendido atleta, che sembrava invincibile, non sarebbe più tornato a fare il tifo per i suoi compagni o a fare musica o a scrivere libri. L’atleta indomabile che quando, durante la stagione 2012-13 si era rotto il tendine di Achille aveva chiesto al suo allenatore Gary Vitti che gli aveva intimato di fermarsi, «ma non puoi solo bloccarlo con del cerotto?», perché a lui non solo non piaceva fermarsi ma nemmeno rallentare, era morto, condannato per sempre a quell’immagine giovane che, per sempre, aumenterà la drammaticità di quella maledetta domenica mattina di nebbia californiana. Difficile spiegare l’estensione di un dolore che ha accumunato un Paese, sciogliendo in lacrime compagni, allenatori e anche ex rivali come Shaquille O’ Neal che era stato ceduto alla squadra di Miami, dopo tre stagioni straordinarie con Bryant, per rendere quest’ultimo protagonista assoluto dei Lakers, la squadra i cui colori, maglia 8 e 24, aveva vestito per 20 anni fino a quella partita d’addio del 2016, con 60 incredibili punti, collezionati come fosse ancora e di nuovo l’inizio di una carriera strepitosa. La vita e la carriera di Kobe avevano toccato il fondo, in maniera brutale, nel 2003, in seguito a un’accusa di stupro che, per un momento, lo portò vicino alla fine, salvato, probabilmente, solo da un team di avvocati cinici e determinati. Per questo la sua storia sarà sempre raccontata, giustamente, con quest’ombra pesante che ne avvolge parte di quella luce che ha ispirato e incoraggiato tanti. “Black Mamba” era il soprannome che aveva scelto per sé stesso, in onore di quel serpente capace di colpire la sua vittima, ripetutamente, solo con l’1% di errore. Un soprannome che ne racchiudeva la fredda determinazione alla vittoria, al non arrendersi mai, fino a raggiungere la grandezza, fino a diventare una stella del gesto sportivo, quel gesto che nessuno dimenticherà.