da New York Angela Vitaliano
C’è un film, tratto dall’omonimo libro di Colm Tóibín, “Brooklyn”, che delinea, in maniera struggente, il racconto dell’emigrazione irlandese verso gli Stati Uniti attraverso la vicenda di una giovane donna, Ellis, che arriva a New York da sola, spezzata in due dalla malinconia per la sua terra e la sua famiglia.
La destinazione di Ellis nella Grande Mela è, come per molti irlandesi, Brooklyn, dove incontra un giovane italo americano, Tony, che, in qualche modo, le rende sopportabile quel sentirsi costantemente divisa in due.
Fra il 1820 e il 1978, cinque milioni e trecentomila italiani affrontarono l’Oceano su navi sovraffollate, per raggiungere un Paese di cui non conoscevano la lingua, né le abitudini, né il cibo; solo irlandesi e tedeschi emigrarono qui, negli stessi anni, in numero maggiore, trasformando profondamente la struttura e le tradizioni di una città che da sempre si è lasciata plasmare dalla diversità.
La maggior parte degli italiani arrivava dal Sud e scappava da condizioni di estrema povertà e per questo le abitazioni di East Harlem e del Village, divise in micro appartamenti, spesso abitati da famiglie di molte persone, non sembravano poi cosi male.
Mulberry Street diventò la prescelta dai napoletani, Mott Street dai calabresi, Hester Street dai pugliesi e Elizabeth Street dai siciliani.
La ricerca di spazi abitativi più ampi e di lavoro, però, spinse molti di loro a scegliere Brooklyn come “casa”, proprio come si vede nel film.
In tanti, però, continuavano a non parlare inglese e ad avere difficolta ad integrarsi con il resto della comunità; i bambini, poi, passavano molto tempo in strada, non potendo godere di strutture adeguate al divertimento.
Tutti, però, avevano una passione che era riuscita a superare ogni barriera e che gli consentiva di passare ore a giocare senza dover scambiare molte parole: il calcio.
Per questo, nel 1949, John DeVivo ebbe l’idea di creare un club sportivo che pot
esse tenere i ragazzini lontani dai pericoli della strada e anche far incontrare famiglie e favorire la loro integrazione con il territorio.
Nacquero così i Brooklyn Italians che divennero sempre più famosi militando in leghe professionistiche e semi professionistiche fra cui la Metropolitan Soccer League, l’American Soccer League e la National Soccer League di New York, nella quale si aggiudicarono il titolo per ben due volte, nel 1979 e nel 1991.
Dopo aver cambiato nome varie volte, passando da Boca Juniors a Brooklyn Dodgers - come la famosissima squadra di baseball nella quale giocò Jackie Robinson, il primo afroamericano a militare nella lega dei “bianchi” - la squadra tornò al nome originario con cui milita ancora oggi e che celebra le radici e la storia di questo quartiere che contribuì a rendere uno straordinario melting pot.
«Ero pazzo di questo gioco - racconta Silvio Montalto, che ha indossato la divisa della squadra per ben sedici anni - ma nella mia scuola pochi capivano di calcio e così, quando sentii parlare dei Brooklyn Italians, mi unii immediatamente a loro».
Montalto, capitano durante il campionato del 1979, quando si toglieva le scarpette, lavorava come muratore perché la paga che arrivava dal suo essere uno dei mediani più forti del Paese non bastava a tirar su la famiglia.
Eppure quella squadra è bastata a tanti per conservare il legame con il proprio Paese d’origine e allo stesso tempo per socializzare, imparare l’inglese e sentirsi sempre più a casa in quella nuova terra che gli aveva dato un lavoro, una famiglia e la possibilità di provare a realizzare i propri sogni.