Sullo sfondo di una Manhattan in continuo cambiamento, un attore (Yari Gugliucci) si pone delle domande esistenziali: perché non è stata inventata una parola magica che cancelli la maleducazione? Il sesso è sopravvalutato come l’uso dell’inglese e delle diete? La tecnologia ci ha salvati o ci ha resi schiavi? Nel frattempo un artista (Marco Gallotta) compie la sua opera. È ammutolito dal caos che lo circonda e dal comportamento nevrotico dell’amico, sull’orlo di una crisi di nervi. Non resta che trovare un genio che abbia le risposte a tutti gli interrogativi sulla vita.
Nessuno avrebbe immaginato, solo pochi mesi fa, che il weekend del Pride a New York, il cinquantesimo dalla prima sfilata organizzata per celebrare l’anniversario dei moti di Stonewall e il più famoso del mondo, non avrebbe incluso migliaia di persone, carri colorati, musica e un’esplosione di vitalità.
«Ho fatto una cosa giusta come governatore e ne sono molto fiero: ho coinvolto i cittadini dello Stato in questa situazione in maniera così profonda come non era, probabilmente, mai successo nell’era moderna. Questa pandemia è qualcosa che, senza la comprensione e la collaborazione delle persone, il Governo non avrebbe potuto gestire.
Il 1 settembre 2016, mentre i suoi compagni di squadra, mano sul cuore, ascoltavano l’inno americano, Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, si mise in ginocchio, su una gamba a testa bassa scatenando la reazione contrariata del pubblico. Nelle due partite precedenti, l’atleta era rimasto seduto in panchina e nessuno aveva notato il suo gesto; per questo, in una sera d’agosto, vigilia della partita, aveva confidato a Nate Boyer, ex giocatore di football ed ex militare che aveva preso parte a missioni in Afghanistan e Iraq, il suo desiderio di “protestare” in maniera significativa, per richiamare l’attenzione sulle violenze reiterate contro la comunità di colore.
L’ultima volta che ho mangiato pizza a New York è stato una settimana fa e l’ho preparata con le mie mani: bianca con mozzarella vegana e carciofini. Squisita. Quando vengono i miei amici a casa, mi chiedono sempre di preparargliela. A volte la ordino, e dopo vari “assaggi”, ormai la mia pizza al taglio preferita, da mangiare a casa è quella di “Mama’s Too” nemmeno un’inflessione napoletana nel nome, ma tanto sapore partenopeo nella fetta, sempre ben cotta e davvero squisita.
A New York, insomma, trovare una buona pizza non è affatto difficile; dopo Napoli, dicono le cifre, questa è la città con la più alta offerta di un prodotto ottimo e cucinato nel pieno rispetto della tradizione, forno a legna incluso. Personalmente, amo anche la tipica “pie”, cioè quella pizza gigante come si vede nei film, che puoi comprare a fette per strada, come la più classica “pizza da passeggio”. Che nessuno pretende di paragonare a quelle nostrane e che ha variazioni famose come quella di Chicago, con il bordo ripieno di mozzarella.
La ragione principale per cui a New York, più che in altre città, tutto il cibo del mondo è presente con poche sofisticazioni e restando molto fedele all’originale, è perché qui, per fortuna, ci sono milioni di immigrati che costituiscono l’anima della città.
Quando ho partecipato alla trasmissione della Nove, Little Big Italy (https://it.dplay.com/nove/little-big-italy/), dunque, non avevo dubbi che sarebbe stata una gara combattuta e che la lista di pizzerie avrebbe potuto essere molto più lunga. Spesso si sceglie un locale nel proprio quartiere per evitare spostamenti che a volte richiedono anche un’ora e questo, sempre a conferma che, trovare una buona pizza a New York, è più facile che trovare un taxi nell’ora di punta in un giorno di pioggia.
Da un lato, sebbene raramente frequenti ristoranti italiani quando esco (mi piace provare altri tipi di cucina), la cosa mi ha riempito di orgoglio perché, peraltro, le tre pizzerie scelte, tutte con un’ottima qualità di prodotti, hanno mostrato delle belle storie umane e anche la complessità della città che è stata la mia casa prima di New York.
Insomma ci voleva l’Oscar per far commuovere Brad Pitt, sopravvissuto al matrimonio con Angelina Jolie, all’abuso di alcol e alla sua eterna bellezza da ragazzino da fotoromanzo, ora finalmente uomo sexy e con qualche ruga. Ci voleva l’Oscar per far inceppare la voce a Joaquin Phoenix, mentre ricorda suo fratello River, morto a 23 anni per un’ overdose: bello e dannato, come nella più abusata delle dicotomie hollywoodiane. Ci voleva l’Oscar per consacrare René Zellweger, che tanto abbiamo amato quando era l’imperfetta, geniale, goffa e straordinaria Bridget Jones, come la più noiosa degli oratori, così noiosa che mentre lei ringrazia, non si capisce bene chi, ti viene voglia di guardare un po’ dell’Amica Geniale, che della noia fa il suo inno.
di Angela Vitaliano
Elena Irollo, napoletana, ha 35 anni, e da due vive a Philadelphia; qui lavora come ricercatore associato alla Drexel University dove è arrivata dopo un dottorato in Biologia di 4 anni in Germania (luogo che ama profondamente) e la “scoperta” che si possono ricevere stipendi adeguati al proprio lavoro. La sua storia, tuttavia, nasce da una “rinuncia”, quella della festa per i 18 anni in grande stile e la proposta di sua madre di investire in un viaggio, da sola, negli USA: l’inizio di un amore che avrebbe guidato tutti gli anni successivi.
Di Angela Vitaliano
Il 22 gennaio, prima che lo spirito delle vacanze abbia completamente abbandonato la scena, per fare spazio al primo anno di un nuovo decennio di questo Duemila, Jon Bon Jovi, aprirà il suo terzo ristorante, “JBJ Soul Kitchen”, all’interno del campus della Rutgers University, nel New Jersey.
di Angela Vitaliano
Sotto i fiocchi leggeri di una nevicata pre natalizia, mercoledì 11, le cifre dell’anno che verrà, il 2020, sono arrivate a Times Square, per entrare a far parte, ufficialmente, dell’allestimento del Capodanno più famoso al mondo.
Mercoledì 4 dicembre le luci dell’albero del Rockfeller Center, dopo uno spettacolo di musica e canzoni davvero meraviglioso, si sono illuminate per l’ottantasettesima volta, suscitando la stessa emozione e lo stesso entusiasmo di sempre.
C’è un solo giorno in cui l’America si ferma, quasi del tutto, almeno per poche ore, per ritrovarsi in case piene di profumo di cibo, amici che arrivano, familiari che affrontano chilometri per non mancare all’appuntamento. Quel giorno, a differenza che in Italia, dove potremmo identificarlo con il Natale, qui è il Thanksgiving Day, il Ringraziamento che cade, per tradizione il quarto giovedì del mese di novembre e dà ufficialmente inizio al periodo delle feste.
Per quasi vent’anni, la pittrice e collezionista Loretta Hines Howard, scomparsa nel 1982 a New York, varcò quotidianamente la soglia del Metropolitan Museum sulla Quinta Strada e, con un’attenzione maniacale, si preoccupò di realizzare l’allestimento delle decorazioni natalizie dell’albero del museo, aggiustando gli abiti di seta dei pastori e curando ogni più piccolo dettaglio.
A New York, si sa, quando cammini, devi guardare verso l’alto, così da non perderti le cime degli spettacolari grattacieli che, da oltre un secolo, ne caratterizzano l’architettura e ne definiscono lo skyline, sempre e, probabilmente, per sempre, il più iconico al mondo.
da New York Angela Vitaliano
Kobe Bryant che parla italiano? Il fatto che l’ex stella dei Los Angeles Lakers sappia esprimersi correntemente nella nostra lingua potrebbe risultare come una novità per molti, soprattutto perché il suo modo di parlare rivela chiaramente uno studio approfondito della nostra grammatica e delle sue regole.
di Angela Vitaliano
“I miei antenati, italiani, hanno portato la tradizione del gelato in Scozia, durante il 1800. A cominciare tutto, fu il mio bis bis bis nonno, Achille, che lasciò la sua città natale, localizzata sulla cima di una montagna, Picinisco, piccolo centro del Regno di Napoli”. Nasce così la storia di “Tipsy Scoop” una delle gelaterie (e marche di gelato) più innovative, apprezzate e “cool” di New York. Il segreto? Gelato e sorbetto “all’italiana”, miscelati con ogni tipo (o quasi) di liquore e birra, per un risultato davvero unico e squisito.
da New York Angela Vitaliano
San Gennaro, patrono di Napoli, potrebbe, senza dubbio, vantare la sua internazionalità visto che, a migliaia di chilometri di distanza, precisamente a New York, le celebrazioni che lo riguardano non hanno nulla da invidiare a quelle organizzate nel capoluogo partenopeo. Da 93 anni, infatti, nel cuore di quella che un tempo era “Little Italy”, oggi per lo più China Town, tranne appunto un tratto di Mulberry Street, si organizza la più antica “festa di strada” con bancarelle, musica e tanto (ma proprio tanto) cibo. L’occasione è proprio l’onomastico del santo che qui gode, come dicevamo, di una popolarità che fa concorrenza a quella di San Patrizio che, però può contare, per mantenere la sua fama, su una delle chiese più belle e importanti della città, proprio sulla Quinta Strada, poco distante dal Rockfeller Centre.
da New York Angela Vitaliano
C’è un film, tratto dall’omonimo libro di Colm Tóibín, “Brooklyn”, che delinea, in maniera struggente, il racconto dell’emigrazione irlandese verso gli Stati Uniti attraverso la vicenda di una giovane donna, Ellis, che arriva a New York da sola, spezzata in due dalla malinconia per la sua terra e la sua famiglia.
La prima tappa fu l’Egitto: lasciarsi Napoli alle spalle, agli inizi del 1900, non fu cosa semplice per la famiglia Migliucci, ma la prospettiva di una vita migliore era esattamente uguale a quella che spinge, ancora oggi, ogni migrante a lasciarsi tutto alle spalle, a separarsi dagli affetti piu’ cari e, spesso, troppo spesso, persino a rischiare la vita.
Quando il 2 febbraio del 2014, Philip Seymour Hoffman, lo straordinario interprete di “Capote”, ruolo che gli valse un Oscar come migliore attore nel 2005, fu trovato morto nel suo appartamento per un’overdose di eroina e cocaina, la discussione sull’escalation del consumo di stupefacenti smise di essere un fatto saltuario.