Vi proponiamo in esclusiva nei mesi estivi, uno per week-end, alcuni dei racconti di viaggio appositamente elaborati da giornalisti e scrittori per agendO 2014, l’agenda che Gesco edizioni dedica ogni anno ad un tema diverso e pubblica a sostegno di un progetto sociale.
Questa settimana andiamo in Tibet con Vittorio Russo.
Del Tibet e del Nepal ti colpiscono subito i colori, a Gyantse come a Shigatse, a Lhasa come a Nedong. Sono di un contrasto stupefacente, ti danno una sensazione inconsueta del freddo più freddo, del bianco più tagliente, del color porpora più sanguigno. Poi percepisci tutto il resto, con gradualità, come un’avventura degli occhi. Perché tutto il resto è l’odore di una distanza siderale dalla tua, l’odore delle cose consumate dal tempo e dall’uso implacabile: oggetti insostituibili per povertà ma forse anche per quel sentimento che agli oggetti più usati dà la connotazione di cosa sacra e perpetua. Entro in punta di piedi a Gyantse e mi sento avvolto dal manto di una dimensione inimmaginata. La prima sensazione è di disagio, poi di curiosità. È una città, ma i concetti di città qui sono diversi dai nostri, perché diverse sono le interpretazioni della geografia urbana. Strade, piazze, cortili, vicoli hanno consistenze, funzioni e destinazioni diverse dalle nostre. La piazza anche in città grandi come Shigatse in Tibet o Bhaktapur in Nepal, è una superficie vuota per il gioco dei bambini, è il luogo di preghiera del seguace di Shiva col volto coperto di cenere che sgrana la sua collana di rudraksha, è lo spazio per l’altare rosso e giallo di incensi e fiori, è l’aia dove donne dai volti rugosi come noci, nascoste sotto fazzoletti multicolori, pestano le spighe e vagliano il grano mentre un timido vento porta via la pula. I marciapiedi sono luoghi dove la gente discute, dorme, dove le donne filano la lana o impastano fango per farne orci grezzi e dove le ragazze attingono acqua preziosa da pozzi senza fondo, come infaticabili danaidi. Sono spazi pieni di luce polverosa, dove il verde della vegetazione si intrufola nelle sconnessure delle porte intagliate con maestria antica come ricami nel legno. Il selciato è sporco di escrementi di animali domestici e prezioso per il segno di un mantra inciso nella pietra consumata. Sgrano gli occhi su un’età di cui l’Occidente neanche suppone più l’esistenza. In questa parte del mondo pesa l’incubo di una povertà immane, nelle città come nei villaggi. La vita è fatta di cose ed eventi essenziali: luce, buio, gli attrezzi rudimentali del lavoro dei campi, le fragranze e i fetori che si sovrappongono, i colori uniformi della terra opaca e polverosa sotto l’azzurro eccessivo di un cielo visto da quattromila metri. I templi e le pagode di legno sono vere opere d’arte religiosa, scolpite nella pietra più umile e nel legno che il tempo disfa e fa subito antico. Le strade sono invase dai rifiuti e dai rigagnoli verdi dei liquami umani e animali, dappertutto, fra bambini che si rincorrono vociando seminudi. Commuove ed esalta la sconfinata spiritualità. Fede che diventa credulità cieca, esaltazione, quasi malattia, amplificata da un entusiasmo fanatico in mezzo all’asfissiante odore di erbe arse nei bracieri di pietra nei templi, davanti agli altari di Buddha a Lhasa e di Shiva Bhairava a Kathmandu: idoli neri di mille offerte, consumati dalle manate di devote preghiere, dalle offerte di burro di yak, dai chicchi di riso, dai petali di gelsomini, da fiori colorati di cùrcuma, dal sangue dei sacrifici di animali, dai veli bianchi offerti fra preghiere di pianto e di ringraziamento. Per la vita, per la morte, per tutto. Qui si ringrazia Dio per ogni cosa. E si muore ringraziando gli dèi, bruciando i cadaveri lungo il corso di un rigagnolo, vicino a Kathmandu, il Bagmati, dalle acque putride di morte e di cloaca, affluente del sacrissimo Gange. Nel naso hai l’odore nauseabondo di burro che sfrigge per alimentare milioni di stoppacci e l’odore di morte, di cose stantie, sporche. Nelle orecchie i suoni di piccole campane a risvegliare gli dèi dal torpore, per richiamare la loro attenzione sulla vita che scorre nel dolore. La modernità avanza in fretta e sconvolge quella autentica semplicità. Come la violenza politica delle prevaricazioni cinesi per il Tibet e della stri sciante guerra civile che attanaglia il Nepal da anni. Ma mi resta impressa nella mente l’arte degli intagli nel legno delle intelaiature, delle finestre, delle porte scolpite come marmi di cantorie rinascimentali fiorentine, degli altari, degli idoli di legno dei trecentotrentamilioni di dèi dell’induismo. Un’arte che si narra come un’esaltazione fideista nella quale si stratifica l’ingenuità dell’idolatria e della superstizione.
Vittorio Russo
Consigli di viaggio:
Il Tibet è l’altopiano più alto e vasto del mondo. La capitale è Lhasa, “la terra degli Dei”: un piccolo centro situato a quasi quattromila metri di altezza. Simbolo della città è il Potala, residenza, palazzo, fortezza e monastero del Dalai Lama. In Nepal c’è Kathmandu, nobile e povera, millenaria capitale del Paese con le sue pagode, piazza Durbar e il palazzo della Dea vivente Kumari.
Nel 2014 agendO è stata dedicata alla Terra. E’ in preparazione agendO 2015 che sarà dedicata al Cibo e uscirà a settembre.
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