Intervista al prof Giovanni Laino sull’urbanizzazione di Scampia
Le vele sono solo un simulacro della mala politica? Cosa bisogna fare adesso per rilanciare Scampia? Queste ed altre domande le abbiamo poste a Giovanni Laino, professore di tecnica e pianificazione urbanistica del Dipartimento di Architettura di Napoli e presidente del Comitato scientifico Urban@it, che da sempre si interessa al tema delle periferie e ha studiato il quartiere e il progetto Restart Scampia.
Partiamo dall’inizio, perché negli anni ’90 si è scelto di abbattere un complesso che era stato ultimato neanche da un decennio?
Il modello abitativo per l'edilizia pubblica diffuso negli anni ’70 è stato quello del gigantismo, ovvero di costruire delle enormi macchine per abitare che riproducessero la socialità cittadina del vicolo. Pensiamo al Corviale a Roma, una costruzione di oltre un km, i due quartieri ZEN a Palermo, le navi a Genova. Questa soluzione urbanistica ha dimostrato spesso grandi limiti rispetto a quella adottata negli anni ’50 di quartieri costruiti in una dimensione più umana, con abitazioni basse, come i rioni Ascarelli o Loggetta. Invece negli anni ‘60, ‘70, ‘80 da alcune parti del Rione Traiano fino alla periferia nord e a Ponticelli si è costruito un patrimonio in parte scadente sul piano edilizio, inefficace su quello urbanistico, soprattutto impoverito di veri e idonei servizi.
Già negli anni 80 in Francia il problema del grave disagio sociale concentrato nelle periferie era associato ad edifici mostro costituiti con stecche e torri con migliaia di abitanti, infatti sia nella periferia di Parigi che di Lione si è iniziato ad abbattere quei simulacri. Con tanti buoni motivi: perché si trattava di manufatti intrattabili costruiti con tecniche e criteri architettonici ed urbanistici obsoleti e perché i limiti della progettazione si erano amplificati con l’attuazione che ha abbassato le qualità costruttive e spesso non completato i programmi.
Eppure una struttura molto simile a quella delle Vele si trova aVilleneuve-Loubet, paese marittimo del sud della Francia ed è considerata vivibile e con un grande valore estetico…
Non è esattamente la stessa cosa: innanzitutto il problema è il contesto. Il complesso francese è sviluppato vicino al mare e dotato di servizi nonché abitato da persone borghesi. Il limite storico fondamentale dei decisori è sempre stato quello di confondere contenitore e contenuto pensando che attraverso il trattamento degli spazi si risolvano i problemi. In realtà anche quando il trattamento dello spazio è più civile, se i contenitori non si riempono di contenuti, ovvero di servizi, l’operazione risulta fallimentare. Quando vuoi rispondere all’abitare dei ceti popolari, devi costruire case, ma anche una batteria di servizi, mentre dal dopoguerra in poi i poveri sono stati discriminati. Negli anni Ottanta sono stati costruiti anche i contenitori di alcuni servizi, ma senza qualificare interventi che dovevano dare sostanza a quegli stessi servizi. Infatti da Scampia a Salicelle ad Afragola e in diversi altri posti ci sono costruzioni abbandonate o riusate per altri scopi.
Entrando nello specifico delle vele, come è avvenuto il popolamento dell’area?
Le vele sono state occupate subito dopo il terremoto dell’80 prima di essere finite. Ci sono andati ad abitare senza tetto, terremotati, popolazione con medi e alti livelli di fragilità. Il problema non è il fatto in se di abitare nelle vele, dal momento che più del 40% dei cittadini di Scampia vive in palazzi simili ad altre periferie. Il punto è che quando l’omogeneità sociale è troppo elevata e schiacciata verso il basso, con tanti nuclei con un capitale sociale povero, famiglie prese in difficili trappole di povertà, il disagio si cronicizza e alimenta una bomba sociale. La stessa criminalità costituisce un effetto perverso in cui sono state canalizzate e sprecate energie enormi. Anche se all’origine a Scampia erano state previste delle attrezzature, solo le scuole sono state avviate, il polo artigianale non è mai partito, il parco urbano - progettato come un'isola chiusa - è stato aperto solo negli anni ‘90. I decisori hanno disegnato icontenitori, ma non è stata fatta nessuna seria policy di accompagnamento alla nascita e allo sviluppo del commercio e dell’artigianato, delle attività che implicavano interazione, scambio, effetto città. L’insieme di queste componenti, sommando tante disopportunità, ha prodotto il degrado. E nel ’97 c’è stato l’abbattimento della prima vela.
Eppure la struttura delle vele è diventata tout court il simbolo del degrado.
Non solo a Napoli, c'è una quota di politica simbolica fortissima: se si cerca Scampia su google immagini vengono fuori decine di pagine con le vele. È passata un’immagine. C’è stata una costruzione collettiva del simulacro a partire dal mondo dei media e della comunicazione cui ha aderito anche una quota di terzo settore: basti pensare alla narrazione da Piscicelli sino a Saviano. Le policy si allineano e sfruttano la politica simbolica. Il problema è che si è schiacciata una problematica più articolata sotto al problema vele. Non è stata sviluppata una strategia più complessa. Già a partire da Bassolino si è iniziato a ragionare in termini di un piano straordinario, ma intanto sono passati vent’anni.Un programma grazie al quale si sono costruiti nuovi edifici con zoccolatura commerciale provando a creare l'effetto città. Il problema è che in Italia e ancor più al Sud le cose durano il quadruplo del tempo che altrove e in genere nella rigenerazione urbana prevale i fisicismo.
Restart Scampia è un piano di sviluppo valido?
Restart nasce sulla scorta di quel piano degli anni ’90 che vedeva un ridisegno di Scampia con le nuove case più basse, la piazza della socialità, l'apertura al centro del parco (di fronte all'attuale stazione della metro). Nel 2016 poi c’è stato il bando per le periferie, cui ha risposto l'amministrazione De Magistris che ha usato anche uno studio fatto dal dipartimento di Architetturadella Federico II che ribadiva l’abbattimento delle restanti tre vele restanti A,C e D e di rigenerare la vela B collocando prima le famiglie (con alloggi provvisori) per poi collocarvi gli uffici della città metropolitana. In questa idea Scampia diventerebbe la cerniera tra Napoli e i comuni dell’area nord, una centralità metropolitana per superare gli attuali confini. Spazi ove oggi, da decenni, ci sono i campi rom. Un programma ambizioso, di lunghissimo periodo per cui si dovrebbe fare un concorso internazionale, ma che in verità a me sembra molto astratto. Certo la previsione dell'effettiva apertura del Corso di Laurea in Scienze infermieristiche con annessi laboratori - nell'edificio progettato da Vittorio Gregotti destinato in un primo momento a sede della protezione civile - sarebbe una mossa molto importante. La Federico II è pronta per partire già prima di Natale 2020, ma bisogna vedere se vengono completati i lavori con i relativi collaudi.
A proposito di campi rom, diversi milioni di euro sono stati persi per gli alloggi mai realizzati…
La non soluzione della questione campi rom è un punto nero di questa come delle precedenti amministrazioni comunali che non hanno saputo gestirla in modo adeguato.I 6 milioni di euro sono stati perduti perché è passata la linea dell’attesa. Dopo una variante urbanistica che prevedeva la costruzione di alloggi per usi "transitori", per diverse complicazioni, si è iniziato a lasciare spazio a uno sgombro leggero diffuso, favorito dall’incendio dell’agosto 2018. Emblematico di un approccio poco integrato è che le case popolari costruite recentemente sono state assegnate (con una faticosa e complicata procedura) a circa 70 famiglie italiane, che vivevano nella vela da abbattere. Una procedura non senza forzature rispetto ai requisiti minimi e alle graduatorie. Si poteva dare un grande segnale e inserire nella stessa procedura anche nuclei Rom che sono lì da oltre venti anni e hanno gli stessi requisiti degli assegnatari. Il problema non è la disponibilità dei soldi, ma di avere una buona strategia inclusiva.
Cosa bisogna fare perché l’abbattimento delle vele non resti solo un gesto simbolico, ma sia il punto di partenza per una nuova visione dello sviluppo locale?
Il tema sono le attività, le funzioni. Oggi esistono diverse realtà sociali attive, c’è tanta buona volontà, ma manca una strategia seria e un quadro di unione che solleciti sinergie. L'abbiamo proposto nel rapporto Urban@it che ho curato sulle periferie e pubblicato da Il Mulino in queste settimane: perriqualificare, potenziare e rilanciare i servizi che in parte già ci sono, metterli in rete, bisogna creare un’agenzia locale di sviluppo che metta in ordine i progetti creando un partenariato fra il Comune e le più qualificate associazioni all’insegna della ragionevolezza. Bisogna mettere al centro: educazione (non solo scuola), casa, lavoro. Invece che distribuire i fondi a pioggia per progetti a breve termine bisognerebbe strutturare e controllare progetti a tre o cinque anni secondo delle linee prioritarie coinvolgendo le realtà più attive del territorio. Inoltre nutro una speranza positiva nella apertura del centro universitario infermieristico che poterà nuovo capitale umano e un fermento sociale a Scampia.
Alessandra del Giudice