Il docufilm Progetto IV Piano, realizzato dalla regista Cristina Mantis e prodotto dal gruppo Gesco, racconta la storia dello spazio collettivo di attività socio-riabilitative rivolto alle persone detenute e con problemi di tossicodipendenza. E’ stato presentato lunedì 16 dicembre alle 9.30 nella Casa Circondariale di Poggioreale alla presenza di tutta la squadra di lavoro, degli operatori sociali, delle istituzioni carcerarie e della Asl.
Il Progetto realizza da cinque anni un centro diurno socio-riabilitativo all’interno del padiglione Roma, della Casa Circondariale di Poggioreale, ponendosi l’obiettivo generale di attuare la legge nazionale che garantisce ai detenuti le stesse prestazioni offerte ai cittadini liberi. È promosso dal Dipartimento Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro con la sua Unità Operativa Semplice Dipartimentale Strutture Intermedie in collaborazione con la UOS Serd Area Penale e in stretta integrazione con la Direzione della Casa Circondariale di Poggioreale e con il gruppo Gesco. IV piano oltre ad 11 laboratori (teatro, sport, giardinaggio, arte presepiale, meditazione, musica etc.), offre anche uno sportello per l’implementazione delle misure alternative alla detenzione e l’opportunità di rielaborare la propria esperienza e di progettare un programma in una comunità terapeutica esterna più adeguato ad affrontare le problematiche individuali, con l’obiettivo di ridurre i comportamenti a rischio legati all’uso di droghe che hanno spinto a commettere il reato.
“Il primo progetto per la riduzione del danno da tossicodipendenza- spiega Stefano Vecchio, direttore del Dipartimento Dipendenze Asl Napoli 1 Centro. – risale a 31 anni fa e negli anni l’accordo con il privato sociale ci ha permesso di lavorare in modo innovativo aprendo spazi alle relazioni, andando oltre l’attività che si realizzano all’interno dei servizi. La prima cosa che facciamo quando lavoriamo con le persone è mettere in discussione gli stigmi sociali che gli stessi tossicodipendenti hanno interiorizzato”.
Sono 24 gli operatori impegnati nel progetto tra pubblico e privato sociale; 12 gli operatori dello sportello per l’invio in comunità terapeutica, 12 gli operatori nei laboratori; 4 ore in media di presenza per operatore a settimana; 120 gli utenti che in media frequentano i laboratori ogni settimana; 8 gli eventi organizzati in un anno in carcere.
“Poggioreale è un carcere con una vasta tipologia di detenuti - spiega Maria Luisa Palma, direttore della Casa Circondariale -. Ci sono tante situazioni di criticità, la struttura è vecchia e fatiscente, ma tutto ciò non ci impedisce di lavorare per migliorare: ci sono tre cantieri in vari punti, si sta cercando di creare uno spazio giallo per i bambini figli dei detenuti e di portare avanti progetti mirati come IV piano che non è altro che la realizzazione di quello che la legge dispone nel Testo Unico in materia di tossico dipendenza ovvero che le persone coinvolte nella delinquenza per problemi legati alla tossicodipendenza, ricevano le stesse cure che ricevono le persone fuori. In questo senso pubblico e privato sociale operano in modo che il carcere sia normale, ovvero applichi la norma. Una ricerca della Bocconi sottolinea che se le persone detenute sono inserite in progetti di trattamento o addirittura possono andare in misura alternativa c’è l’abbattimento della recidiva del 70%”.
IV Piano è un reportage che fotografa in modo chiaro le attività socio-riabilitative messe in campo da quelli che la regista definisce “angeli in un inferno” che si intrecciano creando una rete di supporto e riduzione del danno per i detenuti. Lo sguardo stupito della Mantis segue gli operatori sociali impegnati nel progetto sulla scia di un’umanità che si scontra in un contesto umiliante quale è quello del carcere più sovraffollato d’Italia (oggi 2180 detenuti) e in particolare del padiglione Roma, ricettacolo di quelli che la società definisce gli “ultimi” tra gli “ultimi”. La regista entra nelle celle dove non c’è separazione tra zona letto e servizi e dove si sperimenta una forma forzata ma non meno intensa di condivisione affettiva e di amicizia. Il degrado viene addolcito dalle scene dei laboratori di teatro, il concerto in carcere di Eugenio Bennato che invita, sulle note di “Mio padre e mia madre si sono conosciuti in galera” i detenuti a sviluppare la propria parte artistica creando una realtà che prima non c’era. La fotografia è quella di un carcere non privo di contraddizioni come sottolinea anche Luigi Romano, presidente dell’associazione Antigone: “Il carcere convivono prassi virtuose e un modello di contenzione barbara. Buone prassi e prassi violente. C’è un’edilizia fossile che è lo specchio del sezionamento del corpo detentivo. In carcere, non c’è solo il tema di chi entra come tossicodipendente, perché si sviluppa una dipendenza dai farmaci che vengono forniti per i disagi sviluppati a causa della detenzione, d’altra parte le persone trans non possono ricevere le cure ormonali per continuare la loro transizione. Nonostante le contraddizione Poggioreale porta avanti progetti innovati rispetto ad altre carceri; le buone prassi e una visione del trattamento vanno esternalizzate, devono contaminare altri istituti”.
Il film di Cristina Mantis restituisce il racconto di una strategia complessa condivisa dalle istituzioni pubbliche napoletane, penitenziarie e sanitarie con il concorso delle risorse del terzo settore, che ha sperimentato, realizzando importanti risultati, un modo innovativo di lavorare nell’area della penalità rivolta alle dipendenze. “Abbiamo iniziato cinque anni fa con due laboratori – spiega Marinella Scala Responsabile Progetto IV Piano e UOSD Strutture Intermedie-. Il progetto parte dalla Asl Napoli 1 e dalla cultura di servizi per le tossico dipendenze nei centri diurni e nei Sert che è già molto contaminata dal privato sociale che permette di andare oltre il paradigma clinico medico e ci porta a progetti di socializzazione e relazione di aiuto e prossimità. Non abbiamo mai pensato di risolvere il problema dei consumi delle sostanze anche perché è un problema così intenso e multifattoriale e variegato e veloce che non abbiamo nessun delirio di onnipotenza, ma facciamo un lavoro di riduzione del danno e stare accanto alla persona e accompagnarla nelle fasi di vita. Il carcere ci sembrava la fortezza più difficile da espugnare perché esistono dei pregiudizi enormi, se si pensa al padiglione Roma dove sono trattenute le persone con tossicodipendenza che ha all’interno anche sieropositivi, tossicodipendenti, sex offender, trans, le quattro categorie più reiette della società. Quindi la sfida è stata iniziare da questo padiglione. Nel tempo abbiamo implementato almeno 10 attività da attività e abbiamo messo in rete il lavoro realizzato all’interno portandolo all’esterno. Vogliamo che si comprenda che il carcere non è una parte avulsa della città, fa parte di noi, delle nostre dimensioni esistenziali”.
Unica storia esemplare approfondita nel docu - film è quella di Garidda Livingstone, straniero e quindi ultimo tra gli ultimi. Mite e partecipativo Garidda è uno delle 130 persone che il progetto IV piano è riuscito ad indirizzare ad una comunità terapeutica. Tuttavia il ragazzo che era andato al porto per partire è stato bloccato perché il suo documento non aveva la fotografia e invece di fuggire è tornato in carcere a chiedere ospitalità dove tutti lo aiutano affinché possa partire per la Sardegna e la sua nuova tappa di riscatto. E’ una storia che parla di umanità e sofferenza, e che insegna che alla sofferenza si può dare qualche risposta. “Ero nel carcere di Benevento a proiettare un altro documentario “Redemption song”- racconta Cristina Mantis- e uno degli operatori di IV piano mi ha parlato di questa esperienza, così ho incontrato Marinella Scala e mi è venuta voglia di raccontare questa storia positiva. In un anno sono venuta un paio di volte al mese, 15 ingressi anche meno, ma secondo me sono bastati. Già dal primo ingresso ho avuto impressione di una sorta di magia, ho trovato un’umanità tale di quelli che mi sono sembrati angeli in un inferno: sono stata nelle celle che sembrano dei pisciatoi e di contrasto c’erano le figure istituzionali e gli operatori che avevano di voglia e desiderio di portare avanti un progetto in cui credevano e che porta al riscatto del detenuto, lo fa essere migliore dell’immagine che normalmente ha di se stesso”.
Sergio D’Angelo, presidente del Gruppo di Imprese Sociali Gesco - ha molto apprezzato il documentario come importante testimonianza culturale utile a facilitare l’abbattimento dei pregiudizi: “Noi non possiamo limitarci a raccontare le storie in ambito circoscritto: la più potente leva della cultura è trasformare il pensiero della gente. Il 30% della popolazione carceraria è rappresentata da tossicodipendenti considerati doppiamente sbagliati. L’idea comune è che bisogna tenere più lontano possibile da noi stessi chi ha scelto di sbagliare. Invece bisogna valutare che è conveniente investire in questi percorsi di riabilitazione perché il costo più alto che la società paga è quello sociale. Per questo il film rappresenta un’operazione culturale importante a mostrare ciò che si è fatto”.
Alessandra del Giudice