“Sicurezza alimentare? Ma vuje ‘o sapite cosa ce stà arint’ ‘o pancarrè europeo?” A parlare è Giovanni (nome di invenzione) che da quando aveva 10 anni vende pane “abusivo”. Lo si incontra fra le strade secondarie del Centro Storico, da Vico San Marcellino ai Banchi Nuovi, spingendosi fino a via degli Acquari, nei presso di Corso Umberto, e a via Sedile di Porto.
Una sorta di pusher del carboidrato per temerari, quelli che non temono streptococchi o l’acrilammide, la sostanza cancerogena presente nella pasta di pane troppo cotta. Nel suo carrozzino (proprio quello che si usa per i neonati) sotto un candido canovaccio di cotone, ogni giorno porta a zonzo dai 15 ai 25 chili di “bambiniello” (così chiama i filoni e le “palate” di pane rigorosamente “cafone” che riempiono il mezzo di trasporto di fortuna), più tre chili di panini napoletani solo di giovedì. Di pane Giovanni se ne intende: d’altronde è figlio d’arte. Agli inizi del ‘900 i nonni paterni gestivano il forno di un cascinale che sorgeva nell’allora aperta campagna di Carditello. Attività ereditata quindi dal padre che, trasferitosi a Napoli, decise di iniziare questa sorta di commercio ambulante. “Erano tempi diversi: tutte queste leggi non esistevano. Figuriamoci che durante la guerra a Napoli si mangiavano le scorze delle patate. Il pane era un cibo di lusso. Mi padre lo vendeva addirittura a rate. Mangi oggi paghi domani”. Spingendo “’o bambiniello” Giovanni è stato testimone dei cambiamenti della città. Dalla ricostruzione del dopoguerra, quando le ragazze “oneste” erano arrivate a “vendersi” per un rossetto, al Boom degli anni ’80, quando il successo sembrava per tutti a portata di mano, passando per i sogni di uguaglianza degli anni ’70. E poi ovviamente la Napoli della Camorra, dei morti ammazzati a terra, la Napoli della paura e della caccia alle Brigate Rosse. “Quante cose ho visto vendendo ‘e palate ‘e pane. E quante volte mi sono scansato ‘e guaje – dice con un sorriso amaro – Come quando mi volevano fare nascondere le armi nel carrozzino. Non avrei potuto dire di no. E invece la persona che mi aveva ordinato di farlo fernette co’ duje botte ‘n capa ‘o juorno appriesso”. Giovanni crede di essere nato sotto una buona stella. Dopotutto lo hanno sempre lasciato tranquillo e lui ha un fiuto infallibile per i guai. “Mi hanno sequestrato ‘o bambiniello quattro o cinque volte in tutta la mia carriera. E un paio di volte ho dovuto tenermi lontano da alcune zone. Ma per il resto sono sempre riuscito a lavorare tranquillo. Mia mamma mi raccontava sempre che quando nacqui avevo la camicia. Credo di essere uno fortunato, ma dico anche “aiutati che dio ti aiuta”. E io ho capito che per continuare a fare il mio lavoro bisogna passare inosservati, confondersi con il colore dei muri e del basolato. Me ne vagu pè sùtta ‘e muri. Comme ‘e zoccole”. Giovanni ride, gli occhi sempre bassi, le mani aggiustano rapidamente il canovaccio sopra la merce ancora calda che gli consente di andare avanti. Non si arricchisce ma riesce a campare. “Quando dico che sono come le zoccole, lo dico per vantarmi. Secondo me non è un’offesa. Le zoccole sono animali intelligenti, capiscono prima degli altri quando una casa sta andando a fuoco o quando una barca sta affondando. Se avessero queste capacità anche i nostri politici, se solo i nostri politici fosse zoccole, ora non staremmo messi così male”.