Non si sa quando gli sia stato affibbiato il nomignolo con il quale è conosciuto nel quartiere, sta di fatto che, sulla base di quell'ironia irriverente che contraddistingue il popolo napoletano, non c'è stato bisogno di un gran sforzo di immaginazione. “Marenna”, al secolo Gennaro Pagnotta, ha un'età compresa fra i cinquanta e i settant'anni.
C'è chi sostiene che sia più vicino ai settanta perché i più anziani se lo ricordano scorrazzare fra l'acciottolato della piazzetta antistante la chiesa di San Carlo alle Mortelle, quando era ancora un ragazzino negli anni Sessanta. Ma il suo aspetto di eterno bambino, il fisico asciutto e tonico, i suoi modi che invitano al gioco lo confinano nell'ambìto universo di chi rimane eternamente giovane.
Si, perché Gennarino (come era chiamato da bimbo) alle spalle di Corso Vittorio Emanuele ci è nato e cresciuto. Le mura dei vecchi palazzi, le strade in salita, i negozietti che si sono avvicendati, chiudendo e aprendo lungo i marciapiedi del trafficato Corso, hanno assistito alla sua vita di ragazzo, poi di uomo, alla fondazione e al fiorire della sua impresa di costruzioni, al fallimento del suo matrimonio, al dissesto economico. E poi ancora al distacco dalla realtà, alla perdita dei princìpi di una logica e senso pratico precostituiti che inscatolano l'uomo nel recinto in cui vivono tutti quelli che “ci stanno con la testa”.
Da quel recinto Marenna ha deciso di evadere per vivere il suo mondo: quello fatto di piccoli oggetti recuperati per strada, con cui crea a sua volta sculture e istallazioni che espone sui paletti sul ciglio della via di San Carlo alle Mortelle. Ogni giorno chi percorre in discesa o salita la strada assiste ad una mostra d'arte che è sempre diversa. Come accade a tutti gli artisti, è da molti incompreso (la signora del primo vascio (basso) sulla sinistra gli ha più volte urato“Valle 'a fà a casa toja stè splendidità”. Traduzione per i non napoletani: “vai a farle a casa tua queste opere d'arte” ), ma c'è anche chi si lascia affascinare dall'inventiva di mettere insieme le cose dimenticate dagli altri e quelle che non servono più. Oggetti buttati via con noncuranza che nelle sue mani acquistano nuova vita, un significato dato dal fatto di essere assemblati fra loro. “Potrebbe essere forse un esempio anche per gli uomini, per gli uomini dimenticati – racconta Gennaro – insieme possono urlare più forte “Hei, ci sono anche io”. Si può creare un'identità unica più forte di cui ci si può vestire chi magari è confuso. Chi si è perso”. Dopo la fatica creativa, a cui si dedica la mattina con le prime luci dell'alba, si siede su un muretto e osserva i passanti, pronto a dare delucidazioni sul tema del giorno. “Questa che vedi è dedicata alla vanità, alla nostra epoca di sovraesposizione che ci lega con nodi difficili poi da sciogliere” spiega mostrandomi una delle istallazioni del giorno fatta di fil di ferro, smalti per le unghie, pezzi derivanti da confezioni di make up. “Oppure questa – continua indicandomi poi un sonaglino per bambini posto sul paletto successivo – è dedicata all'infanzia perduta”. Marenna ama il quartiere, la sua strada che utilizza proprio come se fosse la sua galleria personale, da curare e tener pulita. E gli abitanti della zona (la maggior parte almeno) lo trattano come uno di famiglia, gli offrono il caffè e la colazione, trascorrono ogni giorno qualche minuto a chiacchierare con lui. “È una brava persona – spiega Massimo, il barista – ha una storia triste. A volte può sembrare un po' confuso, ma è una brava persona. Noi lo proteggiamo, anche perché lui si dedica al quartiere: butta i rifiuti, mantiene il vicolo pulito, porta la spesa alle signore anziane, cose così”.
In tempi in cui la vita è una corsa che non prevede battute d'arresto, c'è qualcuno che invece passeggia rivolgendo uno sguardo alle cose (o alle persone?) abbandonate sul ciglio della strada. Il freno è lì accanto all'acceleratore, sarebbe così facile spostare il piede ma ben pochi di noi lo fanno. Gennaro lo ha fatto: forse potremmo imparare da lui.
Chiara Reale