“È un momento cruciale quello che stiamo vivendo a livello planetario e ancor di più in Italia. Un po’ come nel dopoguerra, questo è il momento di una svolta e di un deciso investimento nel Mezzogiorno”. Parola della sociologa Dora Gambardella, appena diventata la nuova direttrice del Dipartimento di Scienze Sociali dell'Università di Napoli Federico II.
Ordinaria di sociologia generale, la Gambardella, insegna metodologia delle scienze sociali e ricerca valutativa e si occupa di esclusione sociale, di pari opportunità e dello studio dei fenomeni di marginalità e povertà. Già vicedirettrice del Dipartimento, è membro del Presidio di Qualità dell'Ateneo e co-chair dell’associazione Espanet Italia (rete italiana degli studiosi di politiche sociali); succede al professore Stefano Consiglio, neopresidente della Scuola di Scienze Umane e Sociali dell'Ateneo.
Come ha appreso la notizia della sua nomina a direttrice del Dipartimento?
Sono contenta per la fiducia riposta in me che è sempre motivo di orgoglio e grande soddisfazione. Era certamente nell’aria un passaggio di consegna, essendo io già vicedirettrice, ma sono soprattutto felice di aver lavorato perché non fosse dato per scontato questo cambio. Volevo che fosse una scelta sentita e condivisa da tutti al Dipartimento, e così è stato, perché la mia nomina è stata il frutto di un voto coeso e convinto. Dunque, un risultato importante non solo per me ma per la collettività, un risultato che è andato finanche al di là delle mie aspettative personali. Un segnale importante di coesione per tutti, per la vita accademica ma anche per l’esterno.
Quali saranno le novità che apporterà all’interno del Dipartimento?
Quando ho presentato il mio programma, sono partita dall’idea che il Dipartimento in questo momento è in crescita. Dal punto di vista della didattica abbiamo numeri in netta crescita, perché, nonostante la pandemia, secondo una tendenza di lungo periodo, continuano ad aumentare gli iscritti. Così come sono in aumento i volumi delle nostre attività di ricerca, dunque eredito una situazione di innovazione e slancio, ma questo successo non deve certo abbassare il livello della sfida di chi prende le redini ora. Penso che ci sia molto da fare per attrezzarsi sia come docenti sia rispetto al personale amministrativo: in questo senso, lavorerò per una riorganizzazione interna per provare a immaginare delle soluzioni di sviluppo per il futuro, coerenti sia con le esigenze didattiche sia con la nostra identità di Dipartimento che della sua lunga storia di interdisciplinarietà e di integrazione ha fatto il punto di forza maggiore.
Che momento stiamo vivendo rispetto ai processi sociali che lei da sempre studia come povertà, marginalità ed esclusione sociale?
È un momento cruciale, di grande svolta, il momento di un investimento sicuramente sulla formazione e sui giovani ma anche di un più deciso intervento nel Mezzogiorno, dove quei fenomeni di povertà ed esclusione sociale che ben conosciamo si sono più fortemente aggravati che altrove. Del resto, il lavoro di ricerca condotto in questi anni mostrava già ampiamente tutte le debolezze presenti al Sud, oggi, con la pandemia è in atto un peggioramento di tutti quei problemi che vengono da lontano e costituiscono fenomeni patologici e strutturali nel nostro territorio. Un aspetto questo che va sottolineato, perché se l’emergenza sanitaria e sociale ha senza dubbio esacerbato la situazione, le diseguaglianze che oggi rischiano di aumentare ancora di più sono qualcosa di atavico e preesistente. È il momento ora di riprogrammate il futuro del Paese, investendo nel Mezzogiorno non solo per rispondere a quei fenomeni di vulnerabilità e fragilità sociale così diffusi da noi, ma anche per creare infrastrutture e condizioni per uno sviluppo economico adeguato.
Perché la Politica è così poco incline a farsi orientare dalle ricerche sulle politiche sociali?
Proprio questo è il tema: la valutazione, quindi tutto ciò che la ricerca mostra accumulando lavori, dati di evidenza empirica, dovrebbe servire a pensare e riprogrammare le politiche sociali, ma spesso c’è come un divario tra le due cose. Finisce così che la politica si riferisca alla valutazione solo per una mera evocazione retorica ma senza alcuno sforzo di farne un effettivo strumento di governo. La cosa è singolare perché qui ci sono tutte le potenzialità, in termini di strumenti e di competenze, per suggerire alla Politica come si disegnano le politiche nei territori, a partire dall’evidenza di un divario ancora forte tra Nord e Sud.
Il divario tra Nord e Sud emerge anche dal modo in cui si fa ricerca?
Emerge anche dalla ricerca, nella misura in cui, anche quando si istituiscono Commissioni - penso a quello sul Reddito di Cittadinanza - in cui c’è il nome di una studiosa autorevole come Chiara Saraceno, non c’è di fatto nessuno che abbia esperienza sulla povertà che però provenga dal Mezzogiorno. Molti lavori di ricerca si concentrano solo su alcune regioni dell’Italia centro-settentrionale, il che certamente ci offre uno spaccato della situazione ma c’è il rischio di raccontare solo una parte del Paese, non l’Italia nella sua interezza. Andrebbe ricordato ai decisori e a chi disegna i piani del Recovery Plan di inserire la valutazione e la riflessione empirica ex ante ed ex post come strumento per disegnare gli interventi, perché in assenza di un quadro chiaro e completo della situazione del Paese, si rischia di arrivare a scelte parziali e inadeguate.
Maria Nocerino