La prima cosa che fa Giovanni la mattina appena sveglio è consultare le informazioni meteo. La seconda cosa, mentre prepara la macchinetta del caffè e prima di svegliare i bambini, è prendere notizie circa la viabilità in città, strade chiuse, lavori in corso, rallentamenti legati a fenomeni non immediatamente risolvibili.
Da queste notizie sa già, grossomodo, se quella appena iniziata è una buona o una cattiva giornata.
Figure mitologiche della contemporaneità, nati dall'incestuosa unione del dio Precariato e della dea Necessità, i rider sono centauri spericolati che scorrazzano per le strade di tutte le città del mondo con il loro caratteristico zainetto termico a forma di cubo sulle spalle. Il Contratto che hanno firmato nel momento in cui si sono iscritti ad una delle piattaforme di delivery esistenti - la più famosa Just Eat, ma anche a quelle di Glovo, Uber e Deliveroo - li inquadra, con l'appellativo di “Partner di Consegna”, come lavoratori autonomi. I partner di consegna hanno quindi la sacrosanta libertà di decidere quando, come e dove lavorare. Sono padroni della propria vita fino a quando accettano un'opportunità di consegna: nel momento esatto in cui prendono l'incarico, impegnandosi quindi ad eseguire una consegna facendo da tramite fra esercente e cliente, firmano “allegoricamente” un contratto, in cui è indicato il compenso ma alle cui regole si è acconsentito nel momento in cui ci si è iscritti all'apposita piattaforma della Società. E in quel Contratto, da Just Eat chiamato Accordo Quadro, la parola “libertà” è menzionata tante volte.
“Certo, l'unica cosa che non manca è la libertà. Soprattutto la libertà di morire di fame. Libertà che non vuol dire, se sei una persona onesta, avere la possibilità di scegliere – spiega Giovanni mentre raggiunge con il suo motorio sgangherato Piazza Municipio, uno dei luoghi di raccolta più gettonati per i rider in attesa delle occasioni lavorative – Io sono una delle tante vittime economiche del Covid. Con la mia famiglia vivevo e lavoravo a Salerno. L'attività di cui ero dipendente a nero è stata fra le prime a fallire: due mesi dopo non ero più in grado di sostenere le spese dell'affitto e delle bollette. Abbiamo quindi preso armi e bagagli e ci siamo trasferiti a casa di mia madre a Napoli. Non ho particolari competenze, ma possedevo un motorino. Ho fatto l'assicurazione e sono diventato un rider”. Giovanni parla con me ma intanto i suoi occhi sono fissi sul cellulare. Attraverso l'App Mobile Rider Just Eat riservata ai rider cerca di accaparrarsi più “slot” possibili. “Le slot sono opportunità di lavoro - spiega - Fasce orarie e aree cittadine in cui è possibile che si creino opportunità di consegna. In questo momento moltissimi altri rider sono collegati alla piattaforma per cui c'è la possibilità che, mentre stai opzionando una slot, te la soffino da sotto il naso. Una volta aggiudicata una slot hai una fascia oraria in cui sei potenzialmente disponibile nei confini di un'area cittadina. Ciò non significa però che ti contatteranno per offrirti lavoro. Puoi anche aggiudicarti dieci slot e non fare nemmeno una consegna”.
E il sistema di aggiudicazione delle slot, così come delle proposte di consegna, alberga nel grande buco nero dell'algoritmo che gestisce il traffico di offerte lavorative della piattaforma. Nell’Accordo Quadro è indicato chiaramente che l'Azienda non è tenuta a dare spiegazioni circa i criteri di assegnazione delle slot e delle opportunità di consegna, così come la Società si riserva la libertà di impedire, limitare o restringere ai lavoratori autonomi l'accesso all'App da un momento all'altro, temporaneamente o per sempre.
Un collega di Giovanni vince la diffidenza iniziale e mi dà il numero di Edoardo, suo cognato, ex rider ritornato alla sua principale occupazione. Sarà Edoardo a spiegarmi perché i rider sono così restii a parlare del proprio lavoro e a dare informazioni circa le loro condizioni lavorative e i guadagni. “C'è un sistema di controllo chiamato Team Rider Success, un modo carino per chiamare alcuni dipendenti che fanno il lavoro di controllori. Nei fatti sono loro ad effettuare “investigazioni” sui rider. Sono persone che senti solo telefonicamente: ad esempio, ti contattano per chiederti spiegazioni se, attraverso il Gps del tuo telefono cellulare, vedono che sei in ritardo per una consegna. Non parli mai con la stessa persona, queste persone non hanno faccia e non hanno nome. Ciò determina una sensazione di perenne timore e sospetto. Paura di far tardi perché magari piove o ti imbatti in un ingorgo, paura di prendere una recensione negativa perché il cibo è arrivato freddo o manca la salsa, paura che abbiano intercettato una tua lamentela sulle condizioni di lavoro. Perché non essendoci un criterio equo e chiaro di assegnazione delle consegne, non essendoci la possibilità di intercettare chi sia il vero responsabile di eventuali problemi e non avendo per contratto la possibilità di chiedere spiegazioni, sei un lavoratore autonomo che da un momento all'altro può rimanere autonomo senza essere più lavoratore”.
È quasi mezzogiorno, a Piazza Municipio, sotto il sole di una primavera che arriva in anticipo come un regalo inaspettato, sono rimasta sola con i piccioni. I ragazzi con cui mi ero presentata e che con diffidenza avevano dato un occhiata al mio tesserino non ci sono più. Al loro posto ne arrivano altri. Si fermano, consultano i cellulari e ripartono. Alcuni si prendono una pausa e parlano fra loro, sempre in sella al motorino o alla bicicletta. Il tema caldo del momento sono le assunzioni annunciate da Just Eat. A partire da marzo oltre tremila rider diventeranno lavoratori dipendenti, a tempo determinato, indeterminato, full o part time. “Ovviamente a Milano – specifica Luca, cinquant'anni a dicembre con tre figli e moglie a carico, che arrotonda lo stipendio da operaio nel settore edile lavorando con Glovo e Uber e che sembra molto ben informato – Quanto ci scommetti che a Napoli saremo gli ultimi?”. Luca - che oggi ha più voglia di godersi la bella giornata che di lavorare – mi spiega perché fra i rider ci siano così poche donne. “Quello del rider è un lavoro pericoloso. Non solo perché sei sempre in mezzo alla strada e di corsa, sfiorando l'incidente almeno una decina di volte al giorno. Ma anche perché le rapine, gli scippi e i casi di violenza sono molto diffusi, specialmente in alcuni quartieri. Quando fai le consegne la sera e devi arrivare a Pianura, Piscinola, o sopra ai Quartieri ci pensi due volte prima di decidere se prenderteli o no 'sti quindici euro. Fra l'altro i rider non mangiano mai a casa perché il lavoro segue gli orari della ristorazione e, giusto o sbagliato che sia, si sa che la gestione dei figli e della casa ricade sempre sulla donna”.
La giornata lavorativa di un rider a tempo pieno si spezza a metà giornata per poi riprendere nella sua seconda parte, quella più “tosta”, in serata. E ricominciano le slot, le commesse che arrivano o non arrivano, le corse dalla piazza al ristorante, dal ristorante al cliente e poi daccapo. Lascio i ragazzi poco prima che inizino i turni serali. E mentre faccio ritorno a casa mi arriva un messaggio di Giovanni.
“ Maxi-indagine a Milano! Pare ci siano anche sei indagati fra i dirigenti di Uber, Just eat, Glovo e Deliveroo. Dicono che hanno l'obbligo di assumerci. I ragazzi qui dicono che è tutto merito tuo che ci hai portato fortuna. Devi tornare perché anche loro vogliono raccontarti la loro storia”.
Sono sessantamila i rider in tutta Italia. Sessantamila storie in giro per le strade della città, tutte uguali e tutte diverse. Domani Giovanni si alzerà come ogni giorno. Controllerà il meteo, metterà a fare il caffè, darà la sveglia ai bambini e controllerà la viabilità. Indosserà il suo zaino per fare il lavoro di tutti i giorni, ma non sarà come tutti i giorni.
Domani per i centauri contemporanei c'è un nuovo inizio.
Chiara Reale