SanPa, la serie documentaria di Netflix su San Patrignano continua a far discutere. Ne parliamo con uno dei massimi esperti di Droghe: Stefano Vecchio, Presidente di Forum Droghe ed ex direttore del dipartimento dipendenze della Asl Napoli 1 Centro.
Cosa pensa della serie SanPa?
Credo che la docuserie abbia avuto il merito di dare l’input giusto per riattivare il dibattito sulle droghe che era sparito dall’agenda mediatica, nonostante i politici si stiano tenendo a distanza di sicurezza dal tema. A parte portali specializzati come fuoriluogo dai giornali viene riportata soprattutto la parte regressiva e allarmistica della questione. Alcuni hanno riportato le testimonianze di persone che affermano di essersi salvate. A mio avviso una strumentalizzazione: conosco persone che sono scappare, sfuggendo ai controlli, a causa delle condizioni inumane della struttura. Inoltre a San Patrignano non solo si nascondevano i morti, ma sono rimaste in ombra le violenze psicologiche quotidiane subite dagli ospiti di una struttura basata sulla logica del gregge e della setta. In tv si è detto, per giustificare i metodi di Muccioli, che in una famiglia un ceffone si può dare al figlio. A parte che la pedagogia smentisce la violenza quale metodo educativo, se un genitore può fare un errore, questa violenza non va bene in un’istituzione esterna. San Patrignano era un’istituzione totale che aveva la pretesa di sostituirsi alla crisi dell’autorità paterna giustificando la sospensione dei diritti e la coercizione come metodo.
Un’altra cosa che non si dice è che San Patrignano era diventata una grande impresa capitalistica con grandissimi profitti che si basava sullo sfruttamento servile del lavoro in cambio di una generica liberazione che nella realtà si configurava come una vera e propria contenzione.
La serie è molto ben confezionata con un focus principale sul personaggio Muccioli. Si prova a riportare una doppia verità: negli anni ‘70 il dilagare del fenomeno tossicodipendenze, l’assenza dello Stato e la mancanza di servizi alternativi autorizza Muccioli in modo spontaneistico e con metodi discutibili come la contenzione e la violenza a dare risposte a un problema vissuto in modo tragico dalla società. È una visione scivolosa. Il dibattito sviluppato tra i giovani, da un altro versante, evidenzia invece un punto di vista critico più ampio riflettendo sul modello della deportazione, sui 4 morti, sul suicidio, su un sistema misogino in cui le donne erano considerate, quasi per condizioni naturali, più gravi degli uomini. Mentre il ceto medio, le famiglie, chi ha vissuto questo problema e non si sentiva all’altezza di affrontarlo, ha mostrato un atteggiamento più morbido e passivo di fronte a SanPa.
E la magistratura, come mai condanna e poi assolve Muccioli?
La Magistratura nel primo grado del processo condanna Muccioli con un pubblico ministero che dice che il tossicodipendente non è un malato, ma una persona con diritti violati dalla comunità di S. Patrignano. Ma nel secondo grado del processo Muccioli viene assolto e nella sentenza si afferma che il tossicodipendente è una persona che ha sì capacità di intendere, ma non di volere, quindi è lecito qualunque metodo per liberarlo dalla presunta schiavitù dalla droga. Un gioiello della giurisprudenza impregnata di stigmi e di pregiudizi. Il comportamento contraddittorio della magistratura è sintomatico di un momento storico in cui c’è un cambiamento di paradigma con passi avanti e passi indietro della legge e della società rispetto all’idea di tossicodipendente.
Come si inserisce San Patrignano in quel periodo storico e quale era la reale risposta alle dipendenze dello Stato?
San Patrignano era, come le carceri, un’istituzione totale, particolarmente paradossale in un momento storico in cui Basaglia aveva messo fuori legge i manicomi, un’altra istituzione totale. Non si può dire che lo Stato non c’era. La situazione era molto più complessa di ciò che è stato mostrato nella serie. Lo Stato, in realtà c’era e strizzava l’occhio a Muccioli: lo dimostrano le passerelle politiche di quegli anni capitanate dalla famiglia Moratti che finanzia la struttura. Intanto la legge 685 del 1975 prevedeva la depenalizzazione dell’uso personale delle droghe, ma Craxi, di ritorno dagli Stati Uniti porta con sé il modello proibizionista americano che vede i tossicodipendenti come persone incapaci di intendere e di volere da punire e stigmatizzare e curare annullando la loro personalità. D’altra parte più persone ci sono in una struttura, e a San Patrignano ce ne erano oltre 1000, più viene meno la riabilitazione e la cura e maggiore importanza assumono le regole rigide di controllo e coercizione. San Patrignano era una sorta di setta in cui chi contraddiceva le regole veniva punito e sottoposto a violenza psicologica e fisica.
D’altra parte non era vero che non c’erano altri servizi in Italia. Negli anni ‘80 i servizi pubblici erano diffusi benché non erano strutturati come oggi e inoltre c’erano anche diverse comunità terapeutiche che erano in linea col modello morale di Muccioli, ma anche altri gruppi che sperimentavano qualcosa di diverso: il gruppo Abele di Don Ciotti, la comunità di Capodarco, la Comunità di S. Benedetto al Porto Don Andrea Gallo a Genova. In queste realtà non si poteva obbligavano le persone a disintossicarsi, bisognava andargli incontro, concordare obiettivi nella logica, che si è successivamente diffusa, della riduzione del danno. Il tossicodipendente era considerato una persona con un’autonomia, risorse, diritti anche se in difficoltà. Anche nei servizi pubblici si inizia progressivamente a lavorare sulle persone con interventi di riduzione del danno.
Intanto negli anni ’90, anche con la collaborazione di SaPa, viene approvata la nuova legge, la Iervolino Vassalli che penalizzava il consumo e prevedeva che i tossico dipendenti andassero in carcere o fossero considerati malati cronici da curare a vita.
Cosa ne è di San Patrignano oggi?
Muccioli è morto, ma San Patrignano esiste ancora, si regge sul grande investimento della famiglia Moratti e sulle persone dello spettacolo che avevano inviato i figli che per questo avevano un ingresso privilegiato. La famiglia Moratti, tra l’altro, nella sua opera di restyling, ha messo da parte il figlio di Muccioli e di fatto ha mantenuto il modello originario; continua a mantenere pochi rapporti con le istituzioni pubbliche e continua ad avere tra le 800 e le 1000 persone quindi resta un’istituzione totale, eppure è parte del nostro sistema dei servizi per le tossicodipendenze. Mantiene una sorta di impunità da parte delle istituzioni pubbliche, come la Regione. Non so, ad esempio, come si ossa pensare che una struttura possa essere autorizzata a funzionare sul piano e ai sensi di quale normativa, con quei numeri.
Come è cambiato il consumo di droghe?
Negli anni ‘80 l’eroina era il grande investimento della criminalità organizzata: si contavano circa 300 mila persone, oggi circa 100 mila persone che usano eroina sono in carico ai servizi. Negli anni ’80 le persone che si bucavano per strada non rientravano nei canoni della normalità e questo generava un allarme sociale cosìcche le persone si nascondevano e più avevano bisogno della sostanza più delinquevano e venivano marginalizzate. Si era creata una sottocultura deviante, con gruppi autorganizzati che si riconoscevano nel in quella rappresentazione sociale stigmatizzata. Questa situazione di crisi spinse il Governo a istitutire a servizi secondo una logica di emergenza. All’inizio la mancanza di informazione e lo scambio di siringhe infette determinò molte morti e la diffusione dell’epatite C e dell’aids. Inoltre i Pronto Soccorsi non avevano l’antidoto all’overdose, il naloxone.
Con l’informazione presso i Sert e la diffusione degli interventi di riduzione del danno, le persone hanno iniziato ad apprendere come gestire la dipendenza. Oggi ci sono 300 morti l’anno, trascurabili rispetto a qualsiasi altra causa di morte a partire, ad esempio, dagli incidenti domestici o dagli incidenti stradali da uso del cellulare. Le persone hanno acquisito competenza, si sono ridotti tantissimo i casi di overdose. Sono più frequenti là dove non c’è una grande informazione o dove non arrivano gli interventi di riduzione del danno: tra i migranti e i senza dimora ad esempio.
È cambiata anche la visione delle dipendenze.
Prima si parlava di tossicodipendenza, oggi di modelli di consumo che vengono determinati in base ai diversi contesti dell’uso (le piazze, i servizi, le aree socialmente marginali). C’è il contesto istituzionale che aiuta le persone che curano eroina e metadone a svincolarsi; nei contesti del divertimento si è diffuso il consumo da parte di persone socialmente integrate: lavoratori e studenti che fanno uso di sostanze più gestibili tra cui la cocaina, con fattori di rischio, legati prevalentemente all’illegalità del mercato, alla paura di raccontare un momento di difficoltà a causa dei pregiudizi, la mancanza di informazione sui rischi, la paura di andare in ospedale se stanno male. Gli interventi di limitazione dei rischi e dei danni intervengono fornendo informazioni sui rischi, responsabilizzando l persone liberando i giovani da un modello stigmatizzato del tossicodipendente malato, deviante o criminale. Dall’altro lato si sta diffondendo una nuova area di consumo marginale di alcol ed eroina da parte dei migranti non abituati alle droghe perché provenienti da paesi dove si può usare solo la cannabis, di persone che hanno perso il lavoro, di senza dimora nei confronti dei quali si interviene con le unità di strada e i drop-in fornendo sia materiali sanitari sterili per i comportamenti e rischio (siringhe, preservativi) che offrendo pasti, docce, cambi d’abito, visite mediche e consulenze psicosociali.
I servizi a disposizione sono sufficienti?
Ogni modello di consumo richiede un intervento diverso, è espressione di una realtà culturale e influenzato negativamente da leggi repressive e stigmatizzanti. Se almeno venissero attuati i LEA potremmo avere un’articolazione di servizi più ampia per prevenire le overdosi aiutare e sostenere le persone ad emanciparsi. Il contesto politico, culturale e sociale determina i rischi dell’uso di droghe.
Le comunità sono un altro servizio diffuso, si sono molto differenziate, il circuito del CNCA Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza è il più articolato di tutti con centri che si diversificano ad esempio per la crisi, la comorbilità, i periodi brevi, i periodi più lunghi. La pluralità dell’offerta ha una sua legittimità ed è un’importante risorsa. Andrebbero modificati i criteri di accreditamento, favorita molto di più l’integrazione tra pubblico e terzo settore. Il modello organizzativo dei Serd è archeologico, ma all’interno si sono espresse metodologie di lavoro nuove che stentano ad esprimersi ostacolate da quel modello, inoltre c’è un problema di mancanza di personale. L’emergenza pandemica ha creato un’ulteriore disattenzione, sintomo di una disattenzione più totale ad un intervento di comunità di tutela e promozione della salute. Bisognerebbe rinforzare il sistema territoriale in toto con i servizi che facciano da sentinella delle nuove emergenze sanitarie: dall’epidemiologia di comunità, alle dipendenze, al materno infantile, all’epidemiologia di territorio che intercettino subito i fenomeni prima che si diffondano.
Quale è l’atteggiamento dello Stato nei confronti delle droghe oggi?
C’è un imbarazzante silenzio. Sono 11 anni che non viene convocata la Conferenza Nazionale per le droghe che avrebbe l’obbligo di essere convocata ogni 3 anni. La legge del ’90 ha fatto sì che le carceri trabocchino di tossicodipendenti. Nel 2017 nei LEA c’è stata l’introduzione della riduzione del danno, ma attualmente non è stato prodotto alcun documento della Conferenza Stato Regioni necessario per rendere esigibile tale diritto. Considerando la fragilità delle persone durante la pandemia gli interventi dovrebbero essere sostenuti e potenziati, invece in alcuni casi sono stati addirittura interrotti. A Napoli abbiamo uno dei pochi Dipartimenti per le Dipendenze dove è stata attuata e legittimata istituzionalmente la riduzione del danno con l’integrazione del terzo settore. Complessivamente gli interventi sono precari e il sistema dei servizi delle tossicodipendenze andrebbe sostenuto e potenziato. Il mondo della politica non può non intervenire nel dibattito, sarebbe necessario un cambiamento radicale delle politiche sulle droghe. Come forum Droghe, di fronte ai ritardi estremi della politica, stiamo provando a sviluppare insieme alle nostre reti un’iniziativa autonoma: una conferenza nazionale autorganizzata.
Alessandra del Giudice
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