La docuserie SanPa ha sollevato il velo che aveva relegato in un angolo un episodio controverso della storia del nostro paese degli anni ‘80: quello della comunità di recupero per tossico dipendenti di San Patrignano. Mimmo Maggi è testimone privilegiato degli anni in cui l’eroina faceva carneficine e un osservatore attento e sensibile sulle tossicodipendenze che oggi hanno un altro, camaleontico volto.
Grazie al Pioppo, comunità napoletana di recupero dei tossicodipendenti nata a fine anni ‘70 a Somma Vesuviana e lontanissima dal modello segregante di Muccioli, Mimmo Maggi ha ripreso gli studi, si è laureato in psicologia, è diventato psicoterapeuta. Oggi è direttore dell’Associazione Insieme Onlus che gestisce comunità e progetti di recupero per ragazzi tossicodipendenti a Potenza, modello esemplare di sostegno e aiuto dei più fragili che parte dal rispetto dei diritti umani.
Cosa pensa della serie Sanpa, rispecchia la vera storia di San Patrignano?
Già conoscevo i fatti che ho visto, la serie ha messo a fuoco i particolari. Certo, vedere certe cose in tv mi ha colpito particolarmente. Ci sono un paio di precisazioni che ci tengo a fare. Dalla serie non si evince che all’epoca non esisteva solo San Patrignano, ma c’erano anche tante altre comunità che praticavano una metodologia aperta che non era quella di Muccioli. A Napoli tra le comunità maggiori basate su un modello libertario c’erano il Pioppo, la Tenda, Leo Amici. A livello nazionale Don Carlo, Don Ciotti, Don Mazzi, Don Picco, Villa Maraina a Roma. In SanPa inoltre secondo me si è dato poco spazio alle donne considerando le lotte femministe dell’epoca e, per contrasto, la misoginia di Muccioli che relegava le ospiti in un angolo a fare i lavori delle nostre nonne. Il programma stabiliva addirittura che il periodo di permanenza minimo fosse di 4 anni per gli uomini e di 6 per le donne. Forse non è un caso che si siano suicidate soprattutto ragazze.
Perché la Comunità di San Patrignano ha avuto così successo in quegli anni?
Quei fatti vanno contestualizzati in un periodo storico in cui morivano 2000 persone di overdose all’anno, significa 5, 6 ragazzi al giorno. Oggi, dagli ultimi dati del 2019, muoiono 373 ragazzi l’anno, ovvero uno al giorno. Negli anni ‘80 lo Stato era assente, le famiglie erano disperate e Muccioli offriva accoglienza gratis e non lasciava la possibilità di andarsene per anni.
Sembrava la panacea della tossicodipendenza. Le famiglie si sollevavano di un peso enorme, lo Stato si sollevava dalle responsabilità.
C’è una doppia verità nel dibattito su San Patrignano: aiutava i ragazzi, però i metodi erano poco ortodossi.
Sono inaccettabili le catene, le manette ai lettini, le violenze fisiche e psicologiche del metodo di Muccioli. La libertà era limitata al massimo: si dormiva in otto in camerate controllati da un caporale. Non c’era alcun progetto individualizzato, nessuno psicologo né venivano usati farmaci neanche con tossicodipendenti con problemi psichiatrici. L’unica ricetta era il lavoro e la reclusione. In fondo, come racconta Segre, anche dai lager alcune persone sono uscite, ma chi è uscito come è tornato alla vita? Molti ragazzi parlano di Muccioli come di una cicatrice indelebile. È comprensibile che la famiglia dettata dalla disperazione abbia consegnato figlio, il fratello alla comunità, ma dall’altra parte c’è stata un’inaccettabile violazione dei diritti umani. Il fine non giustifica i mezzi.
Il peggior nemico di persone come Vincenzo Muccioli o Letizia Moratti (n.d.r. con il marito maggiore finanziatrice di San Patrignano) sono loro stessi: basta ascoltarli parlare.
Lei ha vissuto in prima persona l’esperienza della comunità Il Pioppo di Napoli, un modello diverso da quello di San Patrignano.
Quando andavo a scuola per gli insegnanti non valevo niente, una mortificazione quotidiana, perché dicevano che ero un fannullone delinquente, una testa di somaro, una testa calda. A fatica, presi la licenza elementare, poi due anni di collegio dalle suore, sperando in un miracolo di conversione, ma niente da fare. Bocciatura in terza media con medaglia: 7 in condotta. L’anno successivo scrissero sulla mia pagella che si consigliava vivamente di non continuare la scuola, di andare a lavorare. In famiglia le cose non andavano meglio: senza punti di riferimento, sballottato tra tragedie, carceri e manicomi, posteggiato in famiglie di qua e di la, senza che qualcuno ascoltasse la mia voce, la mia rabbia, la mia paura, la mia angoscia. Anni a girare nel labirinto della morte come autocura del mio malessere. Poi l’incontro con un amico, lo psicologo Ilario Miranda che lavorava per il Pioppo dove mi aiutarono attraverso le lettere di un alfabeto a me sconosciuto a formare nuove parole, nuovi concetti, una nuova cultura, un nuovo respiro. La vita trova la vita nelle pieghe di sé stessa: non solo riuscii ad uscire fuori da una fine certa, ma anche a innamorarmi di altre strade, tirandomi fuori il desiderio dell’Altro. Ricominciai la scuola, mi diplomai; all’università fui uno dei primi dei 200 iscritti al mio corso, ogni anno borsa di studio, mi laureai con grande riconoscimento dei docenti e dei compagni. Ho poi conseguito la specializzazione, seguita da tante soddisfazioni sia in ambito accademico che lavorativo, ma soprattutto da un grande riconoscimento della mia famiglia acquisita. Pur essendo della Basilicata sono rimasto legatissimo alla Campania e tifo Napoli.
Qual era il modello del Pioppo?
Era quello di una comunità aperta dove si lavora sulla storia del ragazzo, si accoglieva come persona non come tossicodipendente con tutta la sua dignità da rispettare creando insieme con lui un percorso personalizzato. Nelle comunità che, come Il Pioppo, afferivano al Gruppo Abele e che oggi fanno parte del CNCA - Comitato Nazionale Comunità di Accoglienza, i ragazzi in ingresso non erano perquisiti. L’idea era quella di dare un assegno in bianco alla persona per dire: io mi fido di te. Al contrario di San Patrignano da cui non si usciva prima di quattro anni, il ragazzo veniva fatto uscire in prova dopo poco tempo e iniziava il reinserimento sociale. Al Pioppo non è mai stata accettata la delega dello Stato a rinchiudere i ragazzi tossicodipendenti che come i malati psichici davano fastidio alla società e andavano nascosti alla vista. Basaglia docet: con la legge 180 finalmente si aprirono anche i manicomi. Per fortuna ciò che è accaduto a San Patrignano oggi grazie alle leggi degli anni ’90 non è più possibile. Quando viene meno la dignità della persona crolla tutto. E chi infligge pene non è meglio di mafiosi e camorristi.
Come sono cambiati il consumo e le motivazioni che spingono ad usare le droghe?
Negli anni ‘70 e ‘80 c’era una lotta sociale: le lotte studentesche, la lotta delle donne, la lotta intergenerazionale. Il conflitto era con la legge del padre che comandava: non si accettava più il potere. L’eroina fu messa sul mercato per sedare la pulsione dei giovani alla ribellione senza immaginare che avrebbe ucciso 2000 ragazzi all’anno.
Oggi non c’è più il conflitto figlio-padre, c’è l’esaltazione dell’apparire. Si usa tutto ciò che ci aiuta ad essere più fighi, più belli e le droghe fungono a questo scopo. Oggi sono quasi tutti poli-assuntori, non c’è più l’eroinomane puro. Si prova di tutto perché a partire dagli anni ’90 è passato il messaggio di Berlusconi: “C’è una sola vita e bisogna avere tutto, fare tutto, provare tutto senza un minimo di leggi interne”. Ammettere una relazione tra un uomo di 70 anni e una ragazza di 17, una sorta di pedofilia, significa dire: “Io mi posso permettere tutto”.
Ma se la soddisfazione di avere un cellulare, un’auto, un pc è effimera, la droga appaga ogni volta che la usi con la conseguenza di portare a fare di tutto per procurarsela. L’alcol, il gioco d’azzardo, la cocaina: la droga oggi è un’autocura al mal di vivere, alla mancanza d’amore per sé stessi.
Tra le persone con dipendenze pesanti che ricorrono ai centri di recupero, quanti riescono a uscire dalla droga e quale è il segreto?
Per quanto nelle statistiche ufficiali si possano leggere percentuali del 70% di successo, se dobbiamo riportare una percentuale reale, tra i ragazzi che fanno un percorso terapeutico oggi come ieri circa il 40, 50% esce definitivamente dall’eroina. Gli altri, il 20, 30% torna nel mondo della droga, l’altro 20% muore.
Non è facile comprendere perché qualcuno ce la fa e qualcuno no. A volte le persone sono andate troppo oltre, hanno sviluppato un attaccamento ossessivo alla sostanza, altre volte sono affette da altre patologie, altre volte lasciano la terapia psicologica prima di aver concluso un percorso. Le variabili sono tante e non è possibile calcolarle tutte. Molti vengono in comunità, restano 3, 4 mesi e una volta liberi dalla dipendenza fisica escono, ma sono ancora dipendenti psicologicamente e magari dopo una settimana sono tornati a farsi. Il pericolo più grande dell’overdose c’è proprio quando si è puliti, perché ci si rifà con la stessa dose che è troppo forte per chi è pulito e risulta letale. D’altra parte non si può pensare di privare una persona della libertà, è un suo diritto scegliere.
Quale è la metodologia vincente oggi e quale è il lavoro che fate nei progetti che segue?
Il metodo è quello di rivoltare il calzino del disamore con percorsi che spingano i ragazzi ad innamorarsi di sé stessi. Nella comunità Potenza Città Sociale che gestisco con l’associazione Insieme di cui sono direttore ai 40 ragazzi ospiti offriamo incontri con psicologi e psichiatri, laboratori di cucina, pizza, falegnameria, realizziamo un giornale, proponiamo corsi di giardinaggio, abbiamo una fattoria sociale con gli animali dove si producono olio e vino dove vivono altre 10 persone tossicodipendenti. Ogni persona in comunità è seguita in un percorso individualizzato che valorizza le sue potenzialità e quando vuole andare via è libero di farlo. Chi entra mangia meglio di noi a casa. Partiamo dall’idea che il tossicodipendente come il malato psichiatrico ha già sofferto quindi non deve soffrire ancora per uscire da quella situazione. Vanno accolti, accompagnati, aiutati nelle comunità così come dovrebbero esserlo i detenuti in prigione.
Cosa le ha insegnato la sua esperienza personale?
Oggi quando parlo ai ragazzi, alle persone che seguo, ai miei colleghi di viaggio, penso sempre al ragazzo che sono stato, cercando di parlare a quella testa dura, a quella testa calda che ero, sforzandomi che tutti capiscano e si innamorino del desiderio dell'Altro, sperando che in loro possa nascere il desiderio della vita, quello che gli altri non sono riusciti a far nascere in me quando ero piccolo. Non siamo nessuno per valutare le vite degli altri, e nonostante gli altri posano influenzarci, la vita conserva in sé i suoi paradossi, in fondo gli unici veri poeti della nostra vita siamo noi. Noi decidiamo chi vogliamo essere veramente, l'esperienza del passato può essere una grande fucina per il nostro futuro, figli compresi. È proprio grazie al passato che il futuro si impregna del desiderio dell'Altro, del desiderio di Comunità, di condivisione, di Insieme.
Info sulla comunità: www.insiemeassociazioneonlus.it
Alessandra del Giudice