Storia di violenza e rinascita.
Il potere delle storie è quello di dare informazioni: anche quando dolorose trasmettono conoscenza, e la conoscenza, anche quando amara, salva. La storia di Marina è una storia del genere, che fa male raccontare, ma che chiede ascolto perché dice: questo è successo a me, non fare che succeda ancora, ad un altro o a te.
Ha 40 anni Marina, ma dentro a volte sente il doppio della sua età, tanti sono gli affanni che ha conosciuto. Il suo cuore, invece, è quello di un bambino: non ha ancora conosciuto bene, non ha ancora saputo cosa voglia dire amore, ma lo sta imparando, piano, come se avesse ancora tutto il tempo del mondo. E forse ce l’ha, chi può dirlo? Ha conosciuto l’uomo che poi è diventato suo marito appena maggiorenne: non ha goduto dell’autonomia che le davano i suoi 18 anni, ma la sua età è diventata funzionale al gioco al massacro che ha subito, quasi come se l’unica iniziativa presa da lei fosse stata quella di consegnarsi ad un carceriere. Quell’uomo a prima vista quasi tenero nella sua gelosia e protettività diventa da subito una persona incapace di empatia, possessiva, violenta. Lui la umilia, la picchia e se lei si rifiuta di avere rapporti sessuali arriva a forzarli, a imporli, in nome di un’idea perversa che vuole la sua donna sottomessa alle sue voglie: non importa niente, conto solo io, sembra dire. Lui non ha nome, Marina non può chiamarlo, non può chiedere nulla, non può fare appello alla sua umanità, deve star zitta, voltarsi dall’altra parte, subire le violenze fisiche e psicologiche quotidiane, in attesa che finiscano, in attesa che ricomincino, in attesa di finire di nuovo in ospedale, in attesa del primo figlio, del secondo, in attesa. Marina non lo denuncia: ha vergogna e ha paura di sentirsi incompresa, o peggio, incolpata. Dopotutto, a chi chiedere aiuto quando il mondo intorno a lei è tanto disinteressato da non vedere, non chiedere, non capire a sua volta? Forse il mondo attorno è proprio come l’uomo che ha sposato, e lui solo un degno rappresentante, in scala, della crudeltà che esiste nelle nostre vite, in quelle di tutti. Il contesto sociale in cui Marina è nata e vissuta non sembra accorgersi di nulla per diciannove lunghissimi anni, quasi 7000mila giorni di crudeltà, vissute in un regime di normalità quotidiana: Marina mette al mondo 4 bambini, li fa crescere, li educa, prepara loro pranzo e cena, li accompagna a scuola e in palestra, pulisce casa, stira camicie. Poi lui torna a casa: nel momento in cui la porta dell’appartamento è serrata, la famiglia normale di poco prima, cessa di esistere. Spesso Marina subisce tutto ciò cui è abituata in presenza dei bambini: i bambini guardano, urlano, piangono, spingono la faccia sul cuscino. I bambini sentono.
Quando, per la prima volta, uno di loro fa le domande giuste, Marina si decide a lasciare suo marito. Il proposito ha vita breve: lui promette di cambiare, e questa promessa a lei basta, dopotutto è la prima che riceve. Il processo di consapevolezza è durissimo: passa per l’accettazione della propria realtà e condizione, cosa che tutti, spesso, facciamo fatica ad ammettere. Dire a se stessi che la propria storia d’amore è in realtà una storia di abuso e violenza non è semplice. Ancora meno quando colui che abusa e violenta è una persona che abbiamo amato.
Marina lo fa. Con tutto il dolore che ciò comporta, anche lei è convinta che l’informazione amara e desolante che sta accogliendo nella sua mente e nel suo cuore è necessaria alla sua sopravvivenza. E proprio da questa comprensione tanto dolorosa e difficile arriva la salvezza: quando suo marito la costringe ad ingerire degli psicofarmaci attribuendo a lei la responsabilità dei suoi scatti d’ira, definendola pazza, Marina riesce ad imporsi. Sconfitta, convinta di aver perso tutto, arriva a credersi nullatenente, e proprio in quel momento, accade un miracolo: capisce di essere, in realtà, libera. Anche di chiedere aiuto.
Marina ha chiesto aiuto, ha trovato il coraggio per farlo. Il Centro antiviolenza Eva l’ha accolta e sostenuta accompagnandola nel muovere i primi passi della sua nuova vita: quella di una donna che ha 40 anni, a volte se ne sente addosso il doppio, a volte molti di meno. I suoi bambini le stanno accanto, come pietre preziose sgranate da quel rosario di sofferenze che ha subito. Lui, non più marito, ma Daniele, è in carcere.
Raffaella R. Ferré
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