Un disegno di legge che dovrebbe far ripartire la “buona scuola” ma che è, difatti, contestato duramente in tutta Italia da insegnanti, precari, personale amministrativo e studenti: come mai questa riforma non piace? Ne parliamo con Adolfo Scotto di Luzio, docente di Storia della pedagogia e delle istituzioni scolastiche all’Università di Bergamo.
12 punti per intervenire in molti ambiti della scuola: dall’assunzione di circa 100mila insegnanti precari, ad un maggiore rilievo per materie come musica e sport nella scuola primaria e storia dell’arte nelle secondarie. Il documento dice che bisogna scommettere sui punti di forza dell’Italia. Ma, praticamente, cosa potrebbe cambiare con la riforma?
Per prima cosa dobbiamo chiarire un punto: non si tratta di una riforma ma di un disegno di legge (ovvero un testo, solitamente una bozza, destinato a essere analizzato e a tradursi o meno in legge, ndr.). A ben guardare non si tratta, poi, di un progetto organico, ma di una manifesta volontà di intervento su alcune misure. Questo disegno di legge assume, in pratica, qualcosa a cui manca ancora una base di intervento legislativo. È il caso, ad esempio, della possibilità di una chiamata nominale degli insegnanti da parte di dirigenti scolastici, un reclutamento privatistico che è un’opzione attualmente esclusa dall’ordinamento scolastico. In pratica valica l’apparato burocratico che gli insegnanti conoscono. Se, ad esempio, sono un laureato in ingegneria e partecipo ad una classe di concorso per l’insegnamento di una tale materia, posso farlo anche se non sono un esperto di robotica che è invece la competenza che ha già in mente il dirigente scolastico perché, magari, vuole realizzare un progetto proprio su questa specifica disciplina. Il dirigente avrebbe dei poteri che non possono essere esercitati perché non c’è un’indicazione legislativa in merito. E molte di queste cose non sono state dette chiaramente, ovvero l’opinione pubblica non sa.
Perché insegnanti e dirigenti scolastici si stanno ribellando con tanta forza?
Perché se non è più lo Stato a garantire l’uniformità dovrebbe esserci un accordo pubblico e collettivo nell’ottica di una riforma condivisa della scuola. Laddove non c’è un ordinamento burocratico, per capirci, ci vuole quanto meno un ordinamento culturale. Che è proprio quello che manca oggi. Un sistema non può funzionare senza delle regole e al momento le uniche prevedibili sarebbero di tipo locale ed economico. La domanda che uno dovrebbe porsi, allora, è: crediamo ancora nella scuola pubblica nazionale? O siamo vittime, anche con queste nuove proposte, di una visione che vuole il nostro ordinamento scolastico come un grosso pachiderma impantanano?
RRF
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