Intervista alla sociologa Chiara Saraceno
E' uscito a marzo "Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della Crisi" (Feltrinelli editore) l'ultimo libro di Chiara Saraceno, tra i maggiori rappresentanti delle scienze sociali italiane, honorary fellow al Collegio Carlo Alberto di Torino. Come il titolo del suo libro, Saraceno è provocatoria e sferzante quando parla di Lavoro e sfata gli schemi di Governo che colpevolizzano i giovani in cerca di occupazione e impongono un welfare non universalistico che lascia fuori proprio i più poveri.
Il lavoro non basta, perché è insufficiente o perché è necessario anche altro?
Il titolo è volutamente provocatorio e dalla molteplice lettura: non c'è abbastanza domanda di lavoro e non tutti i lavori sono buoni lavori perché sono insicuri o precari. Inoltre si può essere poveri anche se si ha un lavoro pagato bene, se si è gli unici a percepire un reddito in famiglia o se si hanno molti figli. In queste situazioni il lavoro non basta, è necessario un welfare che sostenga chi non ce la fa. Ma se la crisi investe tutta l'Europa, in Italia mancano gli strumenti fondamentali che in alcuni paesi Europei sono in grado contenere la povertà.
Cosa pensa del welfare italiano?
Che è frammentario ed escludente. Il Governo italiano continua ad approntare misure categoriali, mentre la povertà colpisce al di là dell'età e della categoria a cui si appartiene. Il decreto che riforma gli ammortizzatori sociali introduce in modo sperimentale, dunque non a regime, un'indennità destinata a coloro che già hanno già avuto l'indennità di disoccupazione, ma non hanno ancora trovato lavoro . Mi chiedo perché solo loro? Perché escludere ad esempio una donna che non ha mai lavorato e che dopo il divorzio si vuole ricollocare sul mercato del lavoro? O ancora penso agli 80 euro per i lavoratori con stipendi bassi. Perché lasciare fuori chi invece un lavoro non lo ha affatto? O ancora penso al bonus per il primo figlio che esclude chi magari ha già tre figli. Le politiche poco universalistiche, lasciano fuori proprio i più poveri.
Secondo lei il Governo che dovrebbe fornire un sostegno a tutti i poveri? E' pensabile la proposta dei Cinque Stelle di un reddito minimo garantito?
Mi vergogno quasi di dirlo per il nostro Paese: sono 36 anni che mi occupo del reddito minimo e che lo propongo fin da quando ho partecipato alla prima commissione governativa sugli studi sulla povertà, presieduta da Ermanno Gorrieri.
Siamo l'unico paese insieme alla Grecia che non ha questa misura di civiltà. La misura di sostegno al reddito dovrebbe essere data a tutti coloro ne abbiano bisogno, dovrebbe essere calcolato su base familiare e accompagnata dalle necessarie misure di formazione, inserimento lavorativo.
E' tanto più necessario nella situazione attuale in cui la povertà assoluta in Italia è aumentata moltissimo e ci sono 1,5 milioni di minori poveri. Tutte le ricerche comparative sul rischio di povertà familiare mettono in evidenza che il rischio è più alto nelle famiglie monoreddito e con un numero di figli elevati. I trasferimenti di denaro per i figli sono frammentati, mentre andrebbero erogati a tutti, a prescindere che si tratti di lavoratori dipendenti o altro.
E cosa rispondere a chi pensa che se si introduce il reddito minimo nessuno lavorerebbe?
Bisogna smetterla di cercare i "poveri meritevoli" e "poveri immeritevoli", se si introduce il reddito minimo ci potrà essere qualche nullafacente che lo percepirà, ma i nullafacenti ci sono anche tra i ricchi, mentre sembra che ci si preoccupi solo della moralità dei poveri. Non è solo una questione di soldi. Le persone non sono felici di vivere di assistenza, vogliono lavorare e il reddito minimo rafforzerà anche il potere contrattuale dei lavoratori, che si sentiranno più liberi di rifiutare condizioni di sfruttamento e stipendi da fame in attesa di trovare un'occupazione dignitosa. D'altra parte non è pensabile che il reddito minimo sia pari ad uno stipendio di 750 euro al mese, come propongono i Cinque Stelle, non ci sarebbero neanche i soldi. Pensiamo che in Germania il reddito minimo parte da 350 euro al mese. La proposta è quella di un sostegno di inclusione attiva con cifre diversificate a seconda dell'ampiezza famigliare.
Come uscire dall'impasse della mancanza di lavoro? Ci riuscirà il Job Act?
L'Italia ha il problema, presente anche nel resto d'Europa, di continuare a lavorare sulle politiche dell'offerta del lavoro e non della domanda. Come se la disoccupazione fosse una questione di forza lavoro non abbastanza formata e motivata. Si sono colpevolizzati i giovani, mentre il problema è la mancanza di domanda di lavoro che spinge anche i migliori cervelli a lasciare l'Italia. In Italia non a caso di cervelli non ne attraiamo, vuol dire che siamo un Paese poco competitivo, che il nostro mercato del lavoro è poco attraente, che manca il welfare, che manca un giusto investimento in politiche di sviluppo per la scuola e la ricerca, e che manca l'innovazione sia nel pubblico che nel privato. La responsabilità della crisi del lavoro è anche degli imprenditori che hanno investito nel basso salario, anche per alte professionalità. Agli imprenditori il Governo ha accordato ogni richiesta senza chiamarli alle loro responsabilità nei confronti dei lavoratori. C'è un'assenza di politiche industriali degne di questo nome e l'innovazione non viene realizzata nelle direzioni favorevoli alla creazione di posti di lavoro, mentre l'unica strada percorribile sarebbe investire sulla domanda di lavoro.
Il Job Act rende il lavoro ancora più insicuro poiché consente al datore di lavoro di licenziare a costi bassi, allunga ancora di più la precarietà ed è particolarmente dannoso per le donne che sono più vulnerabili ed esposte al rischio di licenziamento e di dipendenza familiare se scelgono di avere un figlio.
A proposito di donne, anche Papa Francesco ha condannato la disparità salariale tra uomini e donne...
Meglio tardi che mai, mi verrebbe da dire. In realtà ciò che dice il Papa è solo una parte della verità, il problema non è tanto il gap salariale, che è maggiore di ciò che non appaia, poiché il confronto avviene tra tutti gli uomini e tutte le donne senza distinzione di collocamento: in Italia le donne che lavorano sono quelle che hanno un'alta qualifica, quindi se andiamo a confrontare uomini e donne meglio collocati il gap tra i loro salari è ancora più grande. Il problema principale per le donne in Italia è più che altro entrare nel mercato del lavoro e rimanerci, mancano infatti le politiche di conciliazione e di sostegno alle donne che hanno una carriera lavorativa più lenta e più corta di quella degli uomini.
Si parla spesso di giovani disoccupati intendendo la categoria che l'Istat definisce fino a 24 anni, tuttavia il problema della mancanza di lavoro riguarda in modo ancora più incisivo gli ultratrentenni...
L'Istat usa determinati range per la convenzione internazionale che consente di confrontare i dati dei diversi paesi. Il tasso di disoccupazione delle persone attive, ovvero che non studiano e non lavorano, tra i 15-24 anni è alto ed in crescita e riguarda soprattutto i più svantaggiati per i quali non sono sviluppati percorsi di inclusione e che spesso lavorano a nero. Il dato tra i 25 e i 34 è più serio perché riguarda persone che tendenzialmente dovrebbero essere tutte nel mercato del lavoro e avrebbero l'età per compiere scelte di vita decisive, ma non possono realizzarle poiché non hanno un lavoro o hanno un lavoro intermittente e insicuro. Questo avviene sempre più anche a persone oltre i 40 anni sebbene abbiano un alto livello di istruzione. Infine ci sono i neet, coloro non studiano e non lavorano, che in Italia sono 2 milioni: siamo il Paese dove il numero dei neet è cresciuto di più, abbiamo superato la Bulgaria; inoltre se quasi in tutti i paesi i neet sono soprattutto donne (a causa di un modello culturale sbagliato e perdente secondo cui una donna può studiare poco poiché deve aiutare in casa e poi sposarsi) in Italia c'è un aumento soprattutto dei maschi: giovani uomini che stanno fuori dal mercato del lavoro. Insomma tra uomini e donne si va verso un'uguaglianza, ma al ribasso.
Che sistemi di collocamento ci sono oggi in Italia e qual è il loro funzionamento?
Con il Governo Letta, la Giovannini diceva che voleva riformare le Agenzie del Lavoro. Oggi non se ne sente più parlare, è una voce sparita dall'Agenda politica. In Italia gli uffici del lavoro non funzionano, gli impiegati non sono sufficientemente preparati a gestire le risorse umane e lo stiamo vedendo con il fallimento della Garanzia Giovani: dagli ultimi dati risulta che circa 500 mila giovani si sono iscritti (solo un quarto dei neet) e si tratta di giovani con un alto livello di istruzione poiché devono saper navigare in internet, ma solo la metà sono stati contattati una prima volta per un colloquio, e solo 61 mila hanno ricevuto un'offerta di lavoro spesso molto precaria. Si tratta di una goccia nel mare, un'opportunità gestita malissimo, tanto che la Corte dei Conti europea ha stilato una nota molto dura sul flop della Garanzia Giovani.
Napoli una delle città con più famiglie povere e più alto tasso di disoccupazione, come lei ha detto spesso parlando del Meridione, a far fronte alla mancanza di lavoro per i giovani c'è la rete familiare. Questo discorso è ancora valido?
Continua a funzionare il discorso della famiglia, quel luogo protetto dove sempre più spesso un pensionato mantiene molti adulti e alcune volte anche i loro figli. Il problema è che anche le famiglie hanno esaurito le proprie risorse: un'unica pensione non può sostenere un'intera famiglia. Inoltre continuare a pensare che tanto c'è la famiglia, è ingiusto, non aiuta a diventare autonomi e produce delle dipendenze. Non capisco perché nel nostro Paese venga considerato sbagliato dipendere dall'assistenza statale, ma vada bene obbligare a mantenere a oltranza un figlio. Il Governo usa due pesi e due misure, basarsi sulle famiglie significa rafforzare la trasmissione della disuguaglianza intergenerazionale poiché non tutti hanno una famiglia alle spalle a cui chiedere sostegno.
Alessandra del Giudice
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