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Giovedì 22 Ottobre 2020




L’amore era un coltello

4 Agendo2017 Damiano Errico foto aprileMi sono tolta l’inverno dalle spalle come si toglie un mantello, una sciarpa lunga e pesante, con la naturalezza dell’abitudine alla sopravvivenza. Per liberarmi, attorno al collo ho dovuto fare tanti giri con le mie mani magre, nervose.

Gli piacevano tanto le mie mani. Delle sue è rimasta solo l’ombra sulla guancia sinistra. Quella mano di gigante trasformava i doni in pretesa: era un mago, un illusionista.

Adesso che è aprile e la stanchezza abbatte i muri dell’amore testardo, le illusioni si rivelano per ciò che erano: disperati tentativi di far sbocciare fiori nel deserto. Perché noi donne siamo così: prendiamo un terreno arido e ci mettiamo a seminare, poi quando ci accorgiamo che non cresce nulla afferriamo una vanga e scaviamo per giorni, per anni, convincendoci che sotto cumuli di terra secca ci sia un cuore di humus. Che follia.

Mi piaceva come camminava, sembrava che un intero esercito si muovesse. La gente per strada si spostava al suo passaggio.

Era il generale di un esercito feroce che aggrediva i luoghi e se ne impossessava. Questo mi tagliava in due il respiro con una lama sottile e precisa. Perché io camminavo sull’aria per non imporre alcun suono che non fosse quello, lieve, dei miei polmoni. Un accenno di esistenza mi bastava, mentre lui doveva irrompere, forzare, spingere intere masse d’aria per occupare spazio.

Mi riconobbe subito. Tra i cori di protesta contro uno sciopero improvviso della metropolitana, io ero l’unica immobile: avevo concesso al disappunto solo uno sguardo corrucciato. Ero io la prescelta, quella che non cedeva al rumore. Avevo un mare di rabbia sotto la pelle, onde che non si consumavano mai, finivano per infrangersi ancora furiose dietro il muro degli occhi. Temevo di essere giudicata dal mondo intero se avessi pronunciato un’unica frase contaminata dall’ira. Ero stata cresciuta così, con un macigno di giudizio che pesava sulle spalle, curvandomi.

Lui capì subito che ero abituata a calmare le tempeste nel luogo più appartato dell’universo: me stessa.

«Non importa se hai paura - mi disse - Le cose belle fanno paura, soprattutto la felicità. Poi ti abitui.»

E io mi innamorai.

Ero abituata a fare le cose da sola, a non dare fastidio. Avevo poche amiche, con loro uscivo il giovedì per una pizza, due risate e una birra. Bevevamo poco, e quindi parlavamo poco: era pericoloso, a volte addirittura dannoso, lasciarsi uscire una parola di troppo. Parlare a lungo di noi avrebbe congelato l’allegria sulla faccia, la risata sarebbe diventata una smorfia.

Prima di lui, tornavo a casa da sola.

Cominciò presto a farsi trovare fuori dalla pizzeria, se pioveva aveva due ombrelli. Quando gli dicevo che avremmo dovuto dare un passaggio anche alle altre girava le spalle, nervoso, mi dava in punizione la schiena e una dose massiccia di silenzio. Solo una volta acconsentì, ma le ragazze si rifiutarono di salire in macchina. Allora non capii perché.

Il giorno in cui gli dissi che avrei preferito tornare a casa da sola, lui rispose che non dovevo uscire più con le amiche. La mia prima reazione fu la solita: onde di rabbia chiusero porte, finestre, persiane. Ma solo dietro ai miei occhi.

Quando smise di telefonarmi cominciai a vederlo dappertutto e, ogni volta che mi accorgevo dell’angoscia che mi procurava la mancanza, tremavo di paura.

Smisi di vedere le mie amiche. Non ne avevo più voglia. Lui camminava e la gente si spostava: avevo finalmente uno spazio fisico da occupare, anche se dietro la sua scia, rinunciarvi mi appariva sciocco.

Mi portava al lago la sera, quasi tutti i venerdì. Era insieme un momento di bellezza e di orrore. L’amore era continuamente offeso dalle sue pretese di esclusiva, così come la meraviglia dei luoghi di cui prendeva possesso. Il silenzio, la cupola di Avernus che non permette la vita agli uccelli, perdeva i suoi incantesimi al passaggio di quell’usurpatore.

Io ero come il lago, e lui prendeva possesso anche dei silenzi miei, ne faceva piccoli pezzi, li ficcava in tasca. Non sopportava che stessi troppo zitta, che lo sguardo mio andasse al lago, non capiva perché sprecassi tempo con gli occhi altrove. Non capiva, e forse neanche io, che cercavo il centro esatto, un punto di pace, in mezzo al rumore che tanto mi affascinava e mi impauriva, per non cadere nel precipizio che avevo davanti. Ero seduta sul bordo, avevo poco equilibrio.

Non avevo mai visto Morgana, al lago, ma lui le assomigliava: il magnifico miraggio di un castello di fiaba che attira i marinai all’inferno era lo specchio della sua volontà.

Quando disse che dovevo lasciare il lavoro, mi sembrò un sogno brutto.

Gli risposi di no, ma a bassa voce, mentre guardavo il lago. Mi afferrò per il collo, mentre mi baciava stringeva.

Mi lasciò solo quando aprii gli occhi per guardarlo, mentre i polmoni erano tesi come palloncini troppo gonfi.

Dovettero passare intere settimane dall’ultima volta che mi diede ordini, ma la consapevolezza di quello che stava accadendo arrivò. Continuavo a provare per lui il sentimento più violento del mondo: la tenerezza. La paura, però, vinse, anche se non sapevo darle un nome, anche se non sapevo come avrei potuto raccontarla a qualcuno, per chiedere aiuto.

Al telefono non rispondevo più, e neanche al citofono. Avevo chiuso le porte pure oltre gli occhi, per la prima volta nella mia vita.

Così lui cominciò a seguirmi. All’inizio tentava invano di parlarmi, poi prese a camminarmi dietro senza dire una parola. Sentivo alle mie spalle l’aria che si spostava, aspettavo che mi cadesse addosso da un momento all’altro.

Negli ultimi tempi della nostra relazione avevo trascorso interi giorni specchiandomi nei suoi occhi, così che ora, senza lui, mi scoprivo senza me.

Lo scorgevo nelle vetrine. Trovavo biglietti sotto la porta di casa, mazzi di fiori in ufficio, e infine minacce nella segreteria telefonica. Faceva il suo solito rumore. Invece io non ero la solita. Muta, certo, come sempre. Ma anche terrorizzata.

Capì che stavo valutando l’idea di trasferirmi quasi prima di me. Non so come facesse a intuire ogni mio tentativo di fuga, fatto sta che ci riusciva con una naturalezza inquietante.

Il giorno in cui quell’idea divenne consapevolezza, mi tirò per un braccio mentre salivo le scale dell’ingresso e mi portò in un vicolo. Il suo corpo mi faceva ancora tremare, faceva tremare l’aria. Me lo premette addosso.

«Non devi avere paura di me.» disse.

Io però ne avevo, anche se la mia forza era aumentata. Lo spinsi via e scappai. Però al trasloco non pensai più.

Lo spiavo da dietro le tende. La sua bellezza, di notte, diventava tragica, eppure mai banale. Guardava verso la mia finestra. Ripeteva qualcosa muovendo le labbra, per la prima volta senza rumore. Quell’illusione di cambiamento ribaltò il mondo.

Io ero evanescente, lui carnale. Eppure l’avevo allontanato. Una simile fortuna era capitata proprio a me, e io l’avevo offesa rifiutando i suoi doni. Forse avevo sbagliato.

Di notte si fanno a volte pensieri al contrario, soprattutto quando si è innamorati.

Andammo alla cisterna. C’era odore di acqua antica, e mare, odore di estati che non avevo vissuto, c’era l’illusione della spensieratezza. Nessun giudizio entrava in quel luogo, avevo le spalle libere.

Mi baciò contro un muro bagnato.

«Non posso lasciare il lavoro, devo vivere.»

Giustificavo l’ovvio, mi sembrava giusto.

Lui continuava a tacere.

«Non mi seguire più - gli dissi - Non è necessario.»

Lo guardai per tanto tempo, io sorridevo, lui teneva gli occhi inchiodati al muro dietro la mia testa. Non mi era mai capitato di vincere, e di convincere. Mi fece una carezza, sembrava una richiesta di perdono, quasi come il suo silenzio, il mondo al contrario che mi stava regalando: io facevo rumore, lui taceva.

Avvicinai la bocca alle sue labbra bellissime e sentii un peso forte, tra lo stomaco e i polmoni. Eccolo, l’amore. L’amore era un coltello. L’avevo sempre saputo.

Non mi ammazzò, ma avrebbe voluto farlo.

Il giorno dopo era aprile, e le illusioni dell’inverno fuggirono una a una mentre liberavo il collo dalla sciarpa pesante, le spalle dal mantello. Quell’amore di cui avevo piene le tasche mi stava lasciando senza la mia volontà, così come mi aveva afferrata.

È aprile e mi piacciono le piccole cose, quelle di cui di solito ridiamo per mostrare strafottenza. È più facile godere delle cose leggere, quando il sole riscalda i vestiti.

In fondo si ride spesso anche dell’amore. Sebbene lo si annoveri spesso tra le cose leggere, la sua perdita genera le stesse conseguenze di un lutto. Ma tali conseguenze hanno data di scadenza. Come ogni cosa, come pure noi stessi.

La luce della primavera mi fa tornare carnale. Prima mi guardavo allo specchio e vedevo attraverso i miei occhi come fossero tunnel. Prima ero trasparente solo perché lui non mi guardava più.

Com’è accaduto che vivo ancora? Me lo chiedo spesso. Le amiche parlano di storie d’amore disegnate col righello, la mia non si può raccontare. Ho iniziato ad amarlo all’improvviso, e all’improvviso sono riuscita a dimenticarlo, senza dovermi spostare ho spostato lui dal cuore alla mente. La mente ci vede bene, per fortuna, invece il cuore costruisce le persone a suo piacimento.

Nell’aria c’è odore di fiori. Sento anche il mio profumo, nonostante le narici vi siano abituate. Sento me stessa che cammina e trova uno spazio nel mondo.

(Tratto da agendO 2017 almanacco, Gesco edizioni)

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