di Sergio D’Angelo
È troppo presto ancora per fare previsioni su come e quando usciremo dall’emergenza sanitaria. Quello che si può dire al momento è che del virus conosciamo troppo poco e che l’unica certezza fin qui acquisita riguarda la contagiosità e l’evoluzione infausta che talvolta può avere la malattia. E, quindi, non si può non condividere l’invito a stare a casa e alla massima prudenza.
Altra cosa invece, per quanto sia ovviamente possibile, è provare a valutare quanto abbiano potuto incidere sulle dimensioni della catastrofe l’organizzazione, la preparazione e la tempestività delle risposte che si è stati capaci di mettere in campo.
Ad esempio, nel caso del terremoto in Irpinia del 1980, tutti hanno riconosciuto che ci furono ritardi nei soccorsi, che non vi fu un’organizzazione adeguata e che la maggior parte delle infrastrutture e delle abitazioni distrutte versavano già in cattivo stato. Chi non ricorderà l’accorato ed indignato richiamo del Presidente della Repubblica Sandro Pertini a fare presto. Nessuno oggi fa fatica a riconoscere che effettivamente quelle tre sfortunate condizioni incisero negativamente, rendendo il terribile evento ancora più tragico di quanto altrimenti non sarebbe stato, se avessimo potuto contare su una efficiente e tempestiva organizzazione dei soccorsi e su una migliore qualità delle infrastrutture e delle abitazioni.
Per ritornare all’attualità della nostra emergenza sanitaria, diciamo in premessa che mentre sull’appropriatezza delle scelte operative, sull’efficienza organizzativa e sulla tempestività degli interventi vi sono, con ogni probabilità, responsabilità individuali che dovranno essere accertate, su quelle politiche possiamo già oggi provare a circoscriverne il perimetro. E in questo caso, per “politiche” intendiamo le scelte in materia di spesa sanitaria fatte dai governi degli ultimi vent’anni.
Il dibattito sul Sistema Sanitario Nazionale e sull’andamento della spesa legato all’emergenza Covid 19 ha fatto emergere profili contraddittori ed ambiguità di difficile interpretazione. La spesa sanitaria è cresciuta o è stata tagliata? È presto detto: in termini assoluti negli ultimi 20 anni è indiscutibilmente cresciuta. Si è passati dai 68,3 miliardi del 2000 ai 109,6 del 2013. Molto più contenuto è stato invece l’incremento della spesa negli anni successivi: poco più di 5 miliardi di aumento hanno portato l’investimento pubblico a 115,4 miliardi nel 2018. Quindi se negli ultimi 20 la spesa sanitaria è cresciuta, negli ultimi 10 anni l’aumento è stato molto più modesto di quanto veniva promesso. Allo stesso tempo, dal 2010 ad oggi c’è stato un aumento della popolazione di quasi 1,4 milioni di persone e gli anziani ultra65cinquenni sono passati da 10 a 14 milioni. Va anche detto che oggi la popolazione anziana determina il 37% dei ricoveri e costituisce il 50% della spesa sanitaria totale. Come ulteriore dato negativo c’è da registrare il crollo del numero dei posti letto negli ultimi decenni: nel ‘98 erano 331 mila, nel 2007 sono scesi a 225 mila, nel 2017 si sono ridotti a 191 mila. In rapporto al numero di abitanti si è passati da 5,8 posti letto per ogni mille abitanti del ‘98 ad appena 3,6 nel 2017.
Come spiegare la crescita della spesa e la simultanea riduzione dei posti letto?
È vero che nell’ultimo decennio la spesa sanitaria è cresciuta, però l’inflazione è cresciuta di più: dal 2010 al 2019 la spesa sanitaria è aumentata dello 0,9 per cento anno contro il tasso dell’inflazione che è stato nello stesso periodo dell’1,07%.
Inoltre per comprendere come mai la spesa sanitaria sia rimasta grosso modo stabile nell’ultimo decennio, calando però in termini reali, bisogna considerare altri aspetti. Innanzitutto il rallentamento del PIL ha indotto il legislatore a ridurre l’investimento sul Fondo Sanitario Nazionale; dal 2007 l’aumento della spesa c’è stato anche a causa dei continui ripiani dei disavanzi di molte regioni. Per questo motivo c’è chi sostiene che negli ultimi 10 anni siano stati, di fatto, tagliati circa 37 miliardi di aumenti previsti. Non solo, cambia anche la destinazione della spesa, che è andata sempre di più a strutture private, penalizzando la sanità pubblica. Così se nel 1998 l’assistenza ospedaliera poteva contare su 1.381 istituti di cura, il 61,3% pubblici, il 38,7% privati, appena 3 anni fa, nel 2017, si è passati a 1.000 istituti di cura, il 51,80% pubblici e il 49,20% privati. Non solo oltre 300 presidi ospedalieri in meno, ma anche un notevole peso specifico in più del ruolo privato.
Ecco, se si vuole comprendere cosa è accaduto, questa credo sia la ricostruzione che correttamente deve essere fatta. Nessuno mai potrà calcolare quale maggior tributo di vite umane queste scelte abbiano comportato, ma sono allo stesso modo certo che nessuno potrà negare quanto abbiano pesato l’impreparazione, la disorganizzazione, i ritardi e l’inadeguatezza nel prendersi cura degli ammalati. Un prezzo salatissimo pagato per ora sopratutto dalle vittime, dalle loro famiglie e dagli operatori sanitari. Ci sarà qualcuno che pagherà per tutto questo?