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Martedì 23 Aprile 2024




Dalla differenza alla diversabilità

La diversità come categoria trasversale a ogni individuo . Riceviamo e pubblichiamo il contributo dell'insegnante Paola Verdicchio

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Il vasellame  di ceramica riparato con la tecnica nipponica denominata  kintsugi o kintsuroi, che consiste  nell’utilizzo di oro per saldare insieme i cocci di un vaso, mi sembra un simbolo  icastico  della preziosità di qualunque  forma di “diversità”.

Ogni cosa che si rompe rinasce diversa , decorata da un  disegno unico e  irripetibile per  via della casualità con cui la ceramica si frantuma ,non è più la stessa, è arricchita da un intreccio di linee dorate originale ed esclusivo che fa di ogni soggetto un  esemplare unico, grazie alle ferite che lo segnano e che brillano grazie all’oro che vi  scorre attraverso.

La lesione  genera una perfezione nuova, l’imperfezione risalta grazie al metallo pregiato ,è  evidenziata , mostrata come una medaglia conquistata sul campo, uno qualunque di quelli in cui ci si trova a combattere e  a rialzarsi, da generali o da militi ignoti non importa, perché da questi campi si esce sempre nuovi, diversi e vittoriosi. E non importa neanche  se la crepa sia sopravvenuta o se essa appartenga all’individuo dalla nascita. 

Ciascuna cicatrice crea una nuova forma, un caso unico e una nuova storia, la cui bellezza e armonia non consistono nell’omologazione a un prototipo di bellezza e armonia o in un’impossibile assimilazione a un’ ideale di perfezione, che da sempre ha  brillato nella storia e brilla nella vita  per la sua assenza . Spesso, la diversità  dell’Altro  diventa l’occasione di un percorso di formazione all’interno della propria diversità, un viaggio a ritroso, una catabasi entro i propri schemi, i  pre-giudizi e i filtri protettivi attraverso cui si è giunti a guardare il mondo  dal momento  in cui si è perso il contatto con se’ stessi e la propria irriducibilità, momento  che non è mai un punto, piuttosto sempre una linea di tanti momenti di allontanamento dalla propria verità alla ricerca di un significato incontrovertibile, di un modello che garantisca accettazione.

Da  una vite  nata storta una madre può imparare  ad accogliere la stortura  fino a farla assurgere a luogo stesso della bellezza. E’ questo ciò che impara da suo figlio la  protagonista del romanzo di Valeria Parrella, Tempo di imparare. Lui, con la sua andatura sghemba e il suo sguardo straniato  le insegna a leggere il mondo  al di là degli occhiali,  a fermarsi e ad aspettare, a infrangersi contro gli spigoli della vita e a ad andare , nuovamente, ogni volta.

Il più grande contraltare di bellezza al gravare della disabilità sei stato tu e sei tu stesso. Quale canone dovettero inventarsi gli antichi che stesse lì a fondare il normale, se poi tutto ciò che ha saputo rivelare la normalità è stata la sua assenza? Una Nike senza testa ma con le ali, una Venere senza braccia, un Mosè sfregiato. E’ il corpo di Frida Khalo trapunto di ferro come fanno le stelle con il cielo. In questo stesso senso io dico che tu con il tuo passo incerto, con il tuo occhio sghembo, la parola tua attorcigliata sei l’essenza stessa del quadro. (V. Parrella, Tempo di imparare, Einaudi 2013,p. 14)

 …Questa ansia infilata come spade nel cuore di una Madonna non c’entra solo con la disabilità. Cioè un poco centra, ma un altro poco no. E poi non sono io che ti ho affidato a un dentro: sei tu, che mi hai spinta fuori, nel fuori (V. Parrella, Tempo di imparare ,Einaudi 2013,p.9)

 La stortura  è  eccezione, anomalia che si fa singolarità, affrancamento dal ripetersi della regola, libertà di essere. La stortura appartiene di nascita a ogni figlio e, dunque, inevitabilmente, appartiene  a tutti , perché si è sempre figli di qualcuno.

Questa stortura appartiene di diritto al ritratto del figlio. La forza dell’educazione non è recuperarla a un ideale standard di normalità, ma potenziarla, difenderla, amarla. Ecco una buona definizione dell’educazione: amare la stortura della vite. E’ il compito che attende per primi i genitori e che, in un secondo tempo, investe la Scuola. Oggi il pericolo non è più concepire l’educazione come il calco autoritario della tradizione, ma quello di assimilarla all’esaltazione del principio di prestazione che trasforma la vita in una gara perpetua. Diversamente la stortura della vite esige l’eccezione, lo scarto, la divergenza, l’eresia… Reinventare quello che abbiamo ricevuto dall’Altro in modo singolare, sintomatico, generare uno stile proprio, realizzare la vocazione al desiderio, rendere la nostra vita una vite storta. (M. Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi 2014)

  

Eppure, guardare in faccia l’alterazione e, quindi, l’alterità  in qualunque forma essa si presenti, non è facile: essa rivela la fragilità dell’esistenza umana. Non è facile per un genitore e, a maggior ragione, non lo è per un docente, che in più è genitore. L’anabasi comincia da qui, dalla scoperta e dall’accoglimento della propria diversità, qualunque sia lo specchio che la rifletta.

Ma qual è lo sguardo che un docente ha o deve avere  sulle viti? Se quel che resta della Scuola è la funzione insostituibile del docente, allora appare  indispensabile che questo professionista-che rende possibile l’incontro degli allievi con il sapere, umanizzandolo e armonizzandolo alla vita-abbia la capacità di essere riflessivo e autoriflessivo : solo riflettendo nel corso dell’azione, infatti,, questi  può adottare soluzioni di apprendimento  creative e consapevoli in situazioni connotare da instabilità e unicità, solo così riesce a essere in ogni momento , senza perdersi, un ricercatore operante nel contesto della pratica  in grado di elaborare-paradossalmente- tutte le volte  una teoria del caso unico( D. Schӧn)

Ogni giorno in cui un allievo guarda negli occhi il suo insegnante  diventa il primo giorno di lezione per entrambi, l’inizio di un viaggio all’interno di  paure  e certezze, un percorso che sicuramente non è quello di ieri e non sarà quello di domani, un viaggio di formazione alla scoperta della propria stortura. L’anabasi comincia da qui, dalla scoperta e dall’accoglimento della propria diversità, qualunque sia lo scoglio contro cui ci si infrange.

Ma la presenza di una vite storta –che può  rallentare i ritmi di apprendimento dell’intero gruppo, che urla la sua rabbia o  che semplicemente, con il suo occhio sghembo, la parola […]attorcigliata, rivela la fragilità dell’esistenza umana- è difficile da sostenere in un contesto formativo scolastico, caratterizzato da ottimismo pedagogico e da uno sguardo lanciato oltre l’orizzonte delle umane  possibilità. Tuttavia, proprio in questo contesto formativo  è possibile e necessario superare la dicotomia tra curare ed educare, scegliendo il primato dell’individuo come valore e, soprattutto, come personalità.

E, allora, la distanza  tra un’ impossibile normalizzazione e una medicalizzazione della deviazione deve essere superata in nome della qualità della persona, di ciò che di diverso questa è in grado di fare rispetto all’Altro e del plusvalore che la diversità di ciascun allievo apporta alla storia della intera classe, facendo di essa un gruppo, un ricamo di  venuzze d’oro colate da piccole e grandi ferite.

Certo, nelle istituzioni scolastiche rinnovate dall’autonomia ogni allievo è unico, diverso, particolare, ma i problemi legati al pluralismo in educazione –sia che si considerino gli studenti tutti uguali e tutti diversi, sia in presenza di allievi portatori di  diversità più marcate –non sono facilmente risolvibili. Si rischia di incorrere  nell’accentuazione o nella riduzione dell’alterità/ diversità: in entrambi le circostanze il rischio si risolve nel tentativo di annullamento di questa. Nel primo caso si potrebbe confinare  gli  allievi  in un’aula speciale, nel secondo caso si tenderebbe  a sottovalutare la diversità, ignorandola o cercando di assimilarla a un’impossibile “normalità”.

La colomba leggiera, mentre nel volo libero fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe  assai meglio volare nello spazio libero vuoto di aria. (I.Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma- Bari 2000, p.38)

Fuor di metafora, la formazione separata, comunque essa si strutturi, non offre stimoli adeguati allo sviluppo delle potenzialità dell’allievo, in quanto nessuna personalità è un’isola, ma nell’interazione e nella dimensione dialogica  si esprime e si attua, perché, come ritiene Buber , non esiste l’Io, non esiste il Tu, esistono TU-Io, Io-Tu.(M.Buber, Il principio dialogico, Edizioni di Comunità, Milano 1959).

La scuola rappresenta  luogo non  solo di istruzione, ma anche di costruzione dell’identità personale. E’ in questo universo poliprospettico e conversazionale (Jonassen) che  si  impara come  la categoria della diversità sia trasversale a ogni individuo, si apprende che la stortura ci appartiene di diritto, ma è anche qui che si contiene   la vertigine di un allievo  abituato al vuoto del non sentirsi dire mai no ,  smarrimento che  può trasformarsi nel sentimento angosciante di potersi aspettare di  tutto da parte degli altri, perché ci è possibile fare tutto.

Allora, la classe diventa  comunità interattiva e dialogica, spazio mentale, emotivo e fisico di emozioni, detonatore e insieme contenitore di esse, dove l’  osservazione delle differenze aiuta a comprendere le diversità (Rousseau, Essai), dove l’accoglimento della  diversità  stessa ha un prezzo, ma anche  peso e un valore, dove la negoziazione di significati, il compromesso tra azione e reazione presuppone una rivoluzione copernicana all’interno di ciascun membro -allievo,  docente, genitore-, ogni giorno e ogni minuto, dove  l’obiettivo di comporre, senza sacrificare  l’originalità è l’unica strada umanamente percorribile non per uscire dal bosco, ma per imparare a orientarsi nel bosco, in tutti i boschi  (U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi) e anche nella foresta sterminata delle divergenze  che si incontreranno nel  cammino verso la propria eccezionalità.

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