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venerdì 19 Aprile 2024




Sulla morte di Vincenzo Ruggiero "Sessismo mediatico"

Lo spiega il sociologo Fabio Corbisiero (Osservatorio Lgbt)

fabio corbisiero 2Vincenzo Ruggiero era un giovane come tanti altri. Venticinque anni, tutta la vita davanti, una personalità solare, così lo ricorda chi lo conosceva. Gli ultimi, agghiaccianti particolari sulla morte atroce del ragazzo, la cui famiglia aveva denunciato la scomparsa da Aversa lo scorso 7 luglio a “Chi l’ha visto”, fanno orrore. Ma il suo caso fa anche discutere per il modo in cui la notizia è stata trattata dai media.

“Omicidio a sfondo omosessuale”, “ragazzo gay ucciso”, “delitto gay”, sono alcuni dei titoli e delle espressioni utilizzati per raccontare la fine del ragazzo, ucciso da un trentacinquenne, pare, per un raptus di gelosia.

Ne parliamo con il sociologo Fabio Corbisiero, docente del Dipartimento di Scienze Sociali della Federico II e referente dell’Osservatorio Lgbt.

Come spieghi e giudichi l’utilizzo di questo linguaggio?

Non è mai facile parlare della scomparsa fisica di una persona, né tantomeno della sua morte. L’unica forma di linguaggio da utilizzare in questi casi sarebbe il silenzio. Tuttavia non si può tacere su una storia che possiede polvere, abisso e finalmente una pur drammatica verità. Troppo spesso gli “omicidi di genere” – dai femminicidi ai transcidi – raggiungono gli “onori” della cronaca mediatica per lasciare le luci della ribalta alle sconcezze, agli orrori e alla inadeguatezza narrativa e sintattica di certa stampa. Accade in questi giorni per la morte di Vincenzo, la cui dignità di persona e di attivista nella comunità LGBT napoletana è stata inghiottita da penne e retoriche che neanche nel più banale giornalucolo cronachistico avremmo ritrovato.

Perché indugiare su questi ‘particolari’ che non dovrebbero aggiungere nulla a una notizia così terribile? Come sarebbe cambiato se di mezzo non ci fosse stata una storia di presunta gelosia nei confronti di una “trans”, altro particolare che i giornali hanno sottolineato, come a volere rimarcare che la cosa avesse una stretta correlazione con il far parte della comunità LGBTI? Se Vincenzo fosse stato eterosessuale, nessuno l’avrebbe specificato…

L’eterosessualità (perlopiù quella maschile) è data per scontata, universalizzata e resa “neutra” al punto che non riusciamo più a pensarla come una categoria identitaria come l’omosessualità. L’eterosessualità è una consuetudine anche quando significa violenza mentre nel caso delle persone omosessuali, cioè degli uomini gay e delle donne lesbiche che conservano una identità sociale di genere corrispondente al proprio sesso, o delle persone transessuali una delle principali armi linguistiche è configurarle come “categorie d’eccezione”, riproduce stereotipi in chiave eteronormativa e omofobica. Si tratta di analisi parecchio riduttive e controproducenti rispetto all’affermazione delle identità e dei diritti della comunità LGBT. In ogni caso non aderenti alla sensibilità e all’auto-percezione delle persone; oltre ad essere un gravissimo atto di invasione del diritto alla privacy e alla tutela della vita personale di chi è coinvolto in questa drammatica vicenda.

Tu ti sei occupato, attraverso diverse pubblicazioni (a partire dal ‘Vocabolario Sociale’ pubblicato da Gesco edizioni), del linguaggio più corretto quando si descrivono determinati fenomeni sociali. Da anni si tengono corsi di aggiornamento professionali per giornalisti, per non parlare dei tanti codici deontologici della categoria che dovrebbero garantire la tutela e il rispetto delle persone…La situazione dovrebbe essere migliorata in questi anni, eppure succedono ancora cose del genere. Secondo te, perché?

Come ogni altra manifestazione di libertà la “libertà di stampa” ha un suo limite nella “libertà di vita”. Quando si parla o si scrive bisognerebbe pensare all’effetto che le parole possono suscitare negli ascoltatori o nei lettori; ciò significa che i giornalisti dovrebbero cercare di conoscere e tenere nella giusta considerazione anche la prospettiva del lettore. La stesura di un Vocabolario sociale o di mille linee guida su come si dovrebbe scrivere tenendo conto dell’altrui sensibilità non è evidentemente sufficiente se le penne di certi quotidiani sono ancora così improvvide sulla dimensione delle persone LGBT. L’uso delle parole non incide solo sulla rappresentazione sociale di un evento ma orienta le opinioni e gli usi linguistici. Ancora più sorprendente è che in occasione di un dramma dell’esistenza umana come la morte di un uomo per mano di un altro uomo, un fatto sociale sia presentato enfatizzando la relazione con la sessualità, come se l’omicidio avvenuto all’interno di un “triangolo amoroso tra gay e trans” fosse ancor più deprecabile della violenza in sé.

Se ciò accade ancora è segno che l’attenzione (o la disattenzione) all’uso delle parole è una questione ancora irrisolta nel nostro Paese e probabilmente ci sarà bisogno di insistere ancora a lungo.

ll mondo LGBTI si è giustamente ribellato all’utilizzo di questa terminologia, perché Vincenzo era una persona, come chiunque altro. In che modo questo tipo di linguaggio e rappresentazione mediatica può fomentare ancora oggi stereotipi e pregiudizi?

Negli articoli che stanno passando in rassegna c’è tutto il vocabolario del sessismo mediatico: stereotipi, parole inferiorizzanti drammaticamente incorporati in titoli e catenacci della stampa di questi giorni e che presumono la “normalità” della maggioranza eterosessuale rispetto alla “aberrazione” della minoranza omosessuale. Con questi titoli e queste parole viene fortificato il recinto eterosessista che garantisce il ripristino della coscienza di chi si sente “normale”.

Si tratta di riflettere sulle parole prima di scriverle. Non si può e non si deve svalutare il danno sociale che una locuzione come “Un trans/una trans” può avere sull’opinione pubblica. La dimensione transessuale viene connotata attraverso aspetti di svalutazione sociale e ridotta spesso a fattore ipersessualizzato o a una sessualità morbosa, come nel caso dell’omicidio di Vincenzo. 

Maria Nocerino 

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