L’involuzione securitaria

Il punto di vista dell’avvocato Domenico Ciruzzi

domenico ciruzziDalla riforma del codice penale al decreto Minniti, l’Italia percorre la scorciatoia della “sicurezza” attraverso la repressione. Dei motivi e dei rischi di questa scelta politica parliamo con Domenico Ciruzzi, avvocato penalista napoletano, vicepresidente in carica delle camere penali italiane noto per le sue battaglie sul giusto processo e presidente della Fondazione Premio Napoli.

L’adozione dei cosiddetti decreti Minniti del 2017 ribadisce la scelta della politica italiana di dare “sicurezza” ai cittadini attraverso una serie di misure repressive. Il 13° decreto prevede una netta riduzione delle garanzie per i richiedenti asilo, cui viene sottratto un grado di giudizio. Nel secondo decreto ricompaiono i “sindaci sceriffo”, ideati dalla politica italiana di destra, che potranno multare determinati soggetti con il divieto di accesso a determinate aree, anche in assenza di condanna definitiva.

Che novità hanno introdotto e come si inquadrano i “decreti Minniti” in un quadro storico più ampio?

Tutto è connesso, perciò per comprendere cosa sta accadendo bisogna avere uno sguardo complessivo e non essere iper specialisti focalizzandosi solo sull’aspetto giuridico. Si continua senza grandi differenze tra destra e sinistra ad occuparsi di sicurezza solo in termini di repressione, la lezione di Loïc Wacquant già da un ventennio ci ricorda che nel momento in cui gli Stati occidentali hanno dato fondo al liberismo sfrenato, non è rimasto loro che occuparsi di sicurezza. Il primo compito di uno Stato dovrebbe essere invece quello del secondo comma del 3° articolo della Costituzione Italiana ovvero: “(…) rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.  L’impegno massimo degli Stati occidentali dovrebbe essere quello di riequilibrare, attraverso il Welfare, le disparità sociali, economiche, culturali, per dare a tutti una stessa chance di partenza. Nel momento in cui gli Stati hanno fallito miseramente questa missione, si sono affidati al libero mercato con la falsa credenza che avrebbe portato spontaneamente all’uguaglianza. Così evidentemente non è e gli Stati hanno finito per reprimere i conflitti che nascono dalle diseguaglianze invece di cercare di risolverle.

I decreti Minniti ci dicono che siamo in presenza di un diritto che nega i diritti?

Il diritto penale deve accertare il singolo fatto commesso da singole persone e punire quella o quelle persone. Se dai al processo penale un compito anticipatorio, di prevenzione, lo usi impropriamente contro le persone più fragili. Questa involuzione securitaria è evidente non solo nella sostanza dei decreti Minniti, ma anche nella riforma del codice penale approvata pochi giorni fa col voto di fiducia. Partendo dal presupposto che in Italia già c’erano le pene più alte d’Europa, le si sono aumentate ulteriormente e sono stati allungati i termini della prescrizione. E’ già assurdo che un processo duri 15 anni, è uno scandalo aumentarne la durata di altri tre anni. Bisognerebbe accorciare i tempi della giustizia, non allungarli. Chi sostiene la tesi di favorire così i cittadini è in mala fede.

Il tagliare un grado di giudizio solo per i migranti è una violazione fin troppo evidente della Costituzione che prescrive l’uguaglianza.

Sicuramente la prima ragione dell’anticostituzionalità del decreto è che attua una discriminazione. Ma c’è anche un’altra ragione. Spinte repressive già avrebbero voluto eliminare un grado di giudizio per tutti i cittadini. La mia impressione è che si voglia testare questo sistema sui più deboli, ma il resto dei cittadini non devono illudersi perché la legge che oggi si applica ai migranti sarà allargata a tutti i processi. Tutte le misure forti nella storia sono state applicate prima ad una singola categoria per poi essere estese a tutti. E’ come aprire una crepa in un muro: la perdita di gradi di giudizio, finirà per infestare tutto il sistema. E per comprendere l’effetto di questo provvedimento basta ricordare Enzo Tortora che, se non ci fosse stato l’appello, sarebbe stato condannato in via definitiva.

Perché si stanno compiendo queste scelte insensate?

Si tratta di scelte politiche che di fatto non servono a nulla: è un modo di dare l’illusione della sicurezza al cittadino. Si tratta di una facile scorciatoia per il consenso elettorale. Ma si tratta anche di una scelta ideologica: si rispediscono nel loro paese i migranti, si fa il daspo contro il tifoso, si caccia il senza casa dal salotto buono della città. E’ come se togliessimo dal campo di gioco tutti quelli che non ce la fanno. Il meccanismo stesso di inclusione attraverso il Welfare è stato eliminato, allo Stato non interessa più: si procede solo all’esclusione. Tutto ciò che può incrinare il decoro viene rigettato in periferia, discarica sociale invisibile agli occhi della città, o messo nelle carceri, discarica sociale autorizzata. Il linguaggio utilizzato pubblicamente è tipicamente sanitario o da guerra. Si dice “facciamo pulizia” , come se gli “altri” non integrati nel sistema fossero nemici. Il punto è che coloro non ce la fanno, spesso non ce la fanno non per colpa loro, ma perché il libero mercato per costituzione prevede che chi ha una difficoltà venga estromesso. E l’altro, prima o poi, potrebbe essere ognuno di noi.

Cosa dovrebbero fare i politici per includere i più deboli e al contempo dare una risposta alla paura?

Oggi si consuma l’attimo, ma vivere solo il presente significa non occuparsi del futuro. In passato c’era una maggiore programmazione politica, un’attenzione alle nuove generazioni. Oggi c’è uno sguardo corto, si ragiona sulla base di 4, 5 anni, si cercano scorciatoie in funzione del consenso elettorale. Invece si dovrebbe programmare da qui a 15 anni, pensando a quando non ci saremo più. Bisognerebbe investire nel Welfare con scelte politiche finalizzate ad una più equa redistribuzione di risorse culturali e materiali. In particolare bisognerebbe impegnarsi sull’infanzia e nell’educazione culturale, evitando i fondi a pioggia e finanziando progetti stabili di lunga durata. Rispetto alla paura del “diverso”, si ha paura di ciò che non si conosce. L’unica possibilità per superare la paura è conoscere e includere.

Lei è diventato recentemente presidente del Premio Napoli. La cultura può contribuire al miglioramento della società?

Il Premio Napoli ha il compito di far arrivare a tutti l’amore per la cultura, la letteratura, l’arte. E così come si interessa di bellezza non può tralasciare di occuparsi della bellezza delle persone e delle loro storie e così della sorte dei più deboli. Nel’ 38 la cultura italiana delle accademie e delle università non contrastò le leggi razziali, anzi ci fu consenso. Su questo grave cortocircuito non si è fatta abbastanza autocritica per capirne meccanismi causativi. E’una lezione che non dobbiamo mai dimenticare. I luoghi di cultura devono avere anche il compito di interrogarsi di provvedimenti che colpiscono i più fragili. Non è un caso che con il Premio Napoli abbiamo recentemente organizzato il convegno “Dallo Stato Sociale allo Stato penale” e continueremo ad occuparci di temi sociali.

Alessandra del Giudice