"Prima di tutto libere"

Intervista a Lella Palladino sulla violenza sulle donne 

lella palladinoCome tutte le date istituzionalizzate anche la Giornata contro la violenza di genere del 25 novembre, sembra improvvisamente risvegliare cittadini e politici sopiti su un tema gravissimo, che riguarda non solo una donna su 3 in Italia, ma che investe l'intera società a partire dai bambini.

Ci parla di cosa si fa e non si fa per combattere la violenza che continua ad essere agita soprattutto dentro le mura domestiche Lella Palladino, presidente della Cooperativa Eva, che si occupa di prevenzione e contrasto della violenza maschile contro le donne. La cooperativa Eva del Gruppo Gesco attualmente gestisce 5 centri antiviolenza in Campania e sta per implementarne uno nuovo.

Può fornirci i dati sulla violenza di genere?
Rispetto alla prospettiva nazionale, gli ultimi dati sono quelli di Istat di giugno 2015 racchiusi nella ricerca di Lidia Sabatini "La Violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia" che arriva quasi dopo 10 anni dalla precedente, a dimostrare la carenza di investimenti su un tema tanto delicato. Dai dati raccolti nel 2014 risulta che la violenza fisica o sessuale è diminuita negli ultimi 5 anni dal 13,3% all' 11,3%. Sono soprattutto le più giovani a subire meno violenze probabilmente perché più coscienti del fenomeno e dunque più sensibili ad avvertire campanelli d'allarme e a sottrarsi da situazioni a rischio. Al sud aumentano le richieste di aiuto e le donne italiane restano meno anni in una coppia in cui subiscono violenza. Cala anche la violenza psicologica. Tutto ciò è segno che la violenza è più spesso considerata un reato e denunciata e le donne si sentono più supportate. Questo è senz'altro un risultato del lavoro dei centri antiviolenza e in un certo senso possiamo essere felici di questi miglioramenti. Stabili purtroppo le violenze più efferate e gli stupri. Anzi aumenta la gravità di tali violenze che sono sempre più disumane. (Dati Istat: http://www.slideshare.net/slideistat/l-l-sabbadini)

Quali sono gli stereotipi e pregiudizi più comuni riguardo la violenza sulle donne?
La prima ricerca nazionale sulla violenza sulle donne dell'Istat è del 2006 "La Violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia"è stata una pietra miliare dell'analisi del fenomeno infatti evidenziò che la violenza era agita soprattutto all'interno della famiglia e ruppe con i pregiudizi e gli stereotipi prima fra tutti quello che violenza fosse agita solo in contesti sociali ed economici problematici, con il ribaltamento dell'idea comune che fosse la donna fragile e poco istruita a subire maggiormente violenza. Venne evidenziato che la violenza sulle donne è trasversale, ma quelle più a rischio sono proprio quelle più emancipate e indipendenti. Nel 2015 si conferma che sono sempre più le donne manager, laureate, professioniste a subire violenza.

Come mai sono proprio le donne più istruite ed emancipate ad essere più a rischio?
Perché la violenza sulle donne nasce per affermare il potere maschile, più la donna fugge la dimensione asimmetrica del rapporto di prevaricazione che la vuole unica deputata alla cura della casa e della famiglia, più può diventare vittima di violenza perché va contro quell'idea di potere maschile. Bisogna connettere la violenza con la discriminazione. La disparità della donna è voluta e comoda, ha a che vedere con l'organizzazione strutturale, economica della società. Basterebbe pensare a quanto costerebbe prendersi cura di bambini, disabili, anziani e uomini adulti che si fanno accudire senza collaborare, se non fosse attribuito alle donne questo compito di cura. Nel preambolo della convenzione di Istanbul si dice chiaramente che la violenza non è altro che l'espressione del potere che gli uomini continuano ad esercitare in tutti gli ambiti.

Se una donna su tre subisce violenza, significa che ci sono tanti uomini che la agiscono. Chi sono?
Non c'è un tipo di uomo che commette violenza o "il mostro", ma come ho appena detto, gli uomini violenti appartengono trasversalmente a tutti i contesti sociali e culturali poiché la violenza è strutturale nella società. In questo senso trasmissioni quali "Amore criminale" fanno un pessimo servizio alla lotta contro la violenza poiché affrontano le storie come "particolari" e considerano gli uomini violenti "mostri". Inoltre incrementano la paura di ribellarsi mostrando solo i casi in cui le donne vengono uccise nonostante abbiano denunciato (che ovviamente sono una minima parte rispetto a quelle che sono sfuggite alla violenza rifacendosi una vita lontano dal partner).
La violenza di cui si dovrebbe parlare è quella quotidiana che tocca tantissime donne ed è agita da uomini "normali". Sulla stampa per fortuna si approfondiscono maggiormente le cause del fenomeno, ma bisognerebbe parlare di più delle donne che si ribellano ed escono fuori.

Come affrontano le forze dell'ordine e i servizi sociali questo tema delicato?
Da un lato ci sono sempre più protocolli che pongono l'attenzione sul modo di rapportarsi a episodi di violenza, dall'altro c'è ancora il pregiudizio che siano solo le donne meno emancipate ad essere vittime. Questo dipende dal fatto che le donne magistrato o manager difficilmente denunciano o si rivolgono ai servizi sociali poiché hanno più vergogna di chiedere aiuto ai servizi pubblici. D'altra parte una donna emancipata se è più a rischio violenza è più facile che una volta presa consapevolezza del problema e seguite dalle professioniste dei centri antiviolenza riesca a fuoriuscire dalla spirale della violenza perché può contare sull'indipendenza economica, al contrario di una donna dipendente economicamente.

Ci sono peculiarità del fenomeno in Campania?
I tassi di violenza sono più o meno gli stessi nelle varie regioni, un po’ più alti al sud e al centro rispetto al nord. La differenza in Campania, dovuta alla pervasività della camorra, è che ci sono più persone in giro armate, un segnale importante per la valutazione del rischio di ribellarsi da parte delle donne. Basti pensare che ci sono molti uomini violenti anche nelle forze dell'ordine: le mogli ci dicono "ha la pistola nel cassetto, ho paura". Altro problema fondamentale in Campania è che il mercato del lavoro è chiuso.
Le donne hanno bisogno di due cose: politiche abitative e politiche di inserimento al lavoro. Se non hanno casa e lavoro restano col marito. E questo è vero soprattutto al Sud e in Campania dove i tassi di occupazione delle donne sono molto bassi.

Cosa fanno il Governo e l'amministrazione locale per le donne vittime di violenza?
In un convegno organizzato da Dire, donne in rete contro la violenza, il 20 novembre a Roma è emerso che i fondi antiviolenza sono gestiti in modo poco trasparente. La legge 119 nel biennio 2013-2014 assegnava alle Regioni circa 17 milioni di euro. Pur essendo una goccia nel mare, risultano impiegati solo in 5 regioni su 20, mentre nel bilancio della Campania sono pari a zero.
A livello locale 4,5 milioni di euro sono stati stanziati dalla vecchia giunta regionale e distribuiti agli ambiti per aprire oltre 50 centri antiviolenza in Campania (finanziati con il Decreto di riparto n. 25 del 17 gennaio 2014) . Ad oggi molti ambiti non hanno ancora fatto le gare e in alcuni casi quelli che stanno facendo le gare agiscono in modo clientelare favorendo enti non specializzati. Di fatto non recepiscono le nuove normative nazionali che stabiliscono che i centri antiviolenza vadano gestiti da enti che siano nati per contrastare la violenza sulle donne, o in alternativa possano dimostrare 5 anni di esperienza nella gestione di centri antiviolenza.

Rispetto alla violenza subita qual è la situazione dei figli di donne vittime di violenza?
E' in aumento la percentuale di figli che hanno assistito a episodi di violenza (dal 60,3% del 2006 al 65,2% del 2014).  Bisogna tener conto che se il partner ha assistito alla violenza tra i genitori diventa autore a sua volta di violenza nel 22% dei casi, così come se da piccolo ha subito violenza diventa autore di violenza nel 35,9% dei casi. E' necessaria un'opera di prevenzione e sensibilizzazione massiccia per evitare la trasmissione intergenerazionale della violenza.

Si parla tanto di centri antiviolenza per le donne, ma non ci vorrebbero anche centri per gli uomini violenti?
Innanzitutto bisogna dire che i centri antiviolenza, le case di accoglienza per le vittime e le risorse per combattere la violenza e sostenere percorsi di inserimento lavorativo per le donne sono ancora molto insufficienti rispetto alle necessità. Rispetto agli uomini esiste qualche progetto come FIVE man,"Violenza, la parola agli uomini", realizzato insieme a Dire, ma sono pochi. Bisogna partire dalla consapevolezza che la violenza è un problema degli uomini e che loro per primi devono lavorare con le donne attivando un processo di cambiamento culturale. Tuttavia difficilmente un uomo violento prende consapevolezza del proprio agire e se non c'è consapevolezza non si può iniziare nessun percorso di cambiamento. Fondamentale è perciò la prevenzione, per questo tra gli impegni di EVA c'è la creazione di un gruppo di sperimentazione con i ragazzi dei licei e dell'Università. Si lavorerà sulle disuguaglianze, per imparare a gestire la rabbia e capire cosa significa avere un'identità maschile, tenendo presente di ascoltare e accogliere anche le istanze maschili.

Prospettive future?
Sicuramente parlare di libertà delle donne. Lo faremo in un grande incontro nazionale a Paestum che si terrà il 5 e 6 marzo che si chiamerà "Prima di tutto libere" e che chiama a raccolta tutte le anime del movimento politico delle donne, del femminismo, dell'associazionismo delle donne per fare il punto contro piano nazionale antiviolenza del governo Renzi che non tiene conto delle istanze culturali della politica delle donne e che depauperizza il ruolo dei centri antiviolenza che rischiano di essere istituzionalizzati come lo sono stati i consultori familiari partiti come spazi di donne nel corso degli anni hanno perso questa dimensione e sono diventati servizi sanitari. Trasformare anche i centri antiviolenza in questo senso significa far diventare la violenza un problema sanitario invece di affrontare le sue radici culturali, perdendo il nesso tra discriminazione e violenza. Contro questa deriva Dire, donne in rete contro la violenza, lancia l'appello per l'incontro collettivo.  

Alessandra del Giudice