Carola: una donna forte che fa paura

Copertina Carola Rackete 1Due esperte svelano l’ignoranza e la violenza dietro il caso Sea Watch 

La vicenda di Carola Rackete rimbalzata sui media e i social di mezzo mondo è esemplare, non tanto per le posizioni opposte rispetto alla scelta della capitana della Sea Watch, quanto per il come alcuni punti di vista siano stati espressi con grande arroganza dalla massa pur non avendo alcuno strumento culturale e tecnico per farlo e spesso usando un linguaggio molto violento contro la capitana in quanto donna.

Ad aiutarci a svelare l’ignoranza e la violenza diffuse: Vittoria Petronella, Dottore di Ricerca in Diritto Internazionale e dell’Unione Europea e Sostituto Procuratore della Repubblica presso la Procura di Napoli Nord e Bruna Mancini, professoressa di letteratura inglese esperta di gender studies presso l’università della Calabria.

O’ mia capitana. In tanti hanno pensato al bellissimo film “L’attimo fuggente” dove un insegnante puro di cuore, il fantastico Robin Williams, si ribella alle regole per sostenere i ragazzi nel loro percorso di crescita. Carola è una donna, quindi una madre, che ancora più di un uomo agisce per il bene dei suoi figli e per preservare la vita. In una società appiattita e governata dalle paure irrazionali, Carola è un’eccezione che non deve esistere. Tanto più perché donna. Donna in una società che è ancora fortemente androcentrica sia a livello microscopico- locale (basti pensare alla minoranza di posti dirigenziali occupati da donne, alle discriminazioni di stipendio e di carriera in quasi tutti i paesi occidentali, non che al numero sempre alto di femminicidi) sia a livello macroscopico – internazionale ( basti far riferimento alle tante ricerche sociologiche che vedono nel colonialismo e nel post colonialismo una forma di dominazione maschilista delle terre conquistate o ancora sfruttate intese come un corpo femminile da abusare).
Il fatto che Carola sia stata denigrata, offesa e abusata virtualmente da persone che hanno inneggiato allo “stupro di gruppo” e che anche uno psichiatra, il signor Gioeli, si sia espresso in modo assolutamente poco consono sia alla sua professione di cura del prossimo sia ad un essere umano sano di mente (il medico in una conversazione sul caso della Sea Watch 3 dice: “La nave va affondata subito e l’equipaggio intero va arrestato e messo in isolamento totale diurno e notturno...dopo 7 gg si suicidano tutti... i migranti li carichi su un aereo e li sbarchi in Olanda”) dimostra una regressione della collettività verso l’ignoranza e la violenza.

Naufragio in mare 1Va segnalato anche qualcosa di assolutamente positivo: la storia di Carola oltre l’odio ha fatto venire a galla anche la voglia di ribellarsi ad un sistema di disumanizzazione di massa. In tantissime città si susseguono marce e proteste con lo slogan #freeCarola.

Oggi stesso a Napoli ci si riunisce a Largo Berlinguer alle 18.00 con il presidio: “Salvare vite non è reato”. Mentre, mercoledì 3 luglio alle 17.00 la Libreria Tamu di via Santa Chiara ospita, per discutere del caso, Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale che ha seguito tutte le più recenti svolte della politica nazionale ed europea sul tema dell'immigrazione.
L’intensa poesia di Gio Evan viene rilanciata a modi staffetta sui social: “… se io fossi tua madre, ti direi che non ho educato, una figlia a non rispettare le leggi degli altri paesi, ma ho educato una figlia ad aiutare l'uomo, a tirare su con le mani un corpo caduto, ad esserci sempre al grido di aiuto e se la legge non combacia con la salvezza allora non è una legge, è una guerra, non rispettare queste regole non fa di noi ribelli, fa di noi umani, perciò tra le due educazioni schierati sempre accanto all'uomo…”. Eppure anche questa voce nota, che chiaramente sostiene e appoggia il gesto di Carola, è condizionata dall’opinione della massa che ritiene senza alcun presupposto reale che Carola sia andata contro la legge, poiché evidentemente è entrata nell’immaginario comune l’idea che accogliere e salvare i migranti sia qualcosa di sbagliato e punibile dalla legge.
Tutti infatti oggi, grazie ai social si sentono in diritto di giudicare il prossimo non avendone minimamente né la formazione, né l’esperienza, né la competenza. Il punto è che bufale del tipo “Carola è andata contro la legge” si propagano più della verità: ovvero che non c’erano assolutamente i termini per esprimersi in modo così netto su una questione così delicata che va rimandata ai pubblici ministeri. Per questo vogliamo svelare nella loro pochezza i due elementi che nella vicenda di Carola hanno fatto da padroni: l’ignoranza e la violenza.

Le norme locali e le norme internazionali nel caso della Sea Watch

A spiegarci che è sbagliato esprimere a prescindere giudizi sulla colpevolezza di Carola Rackete è Vittoria Petronella, Dottore di Ricerca in Diritto Internazionale e dell’Unione Europea e Sostituto Procuratore della Repubblica presso la Procura di Napoli Nord.  

“E’ il nostro stesso ordinamento a definire quali norme regolano situazioni analoghe al caso Seawatch. Tra i principi fondamentali della Costituzione, anzitutto, primeggia l’art. 2, che riconosce e garantisce ‘i diritti inviolabili dell’uomo. Inoltre, con specifico riferimento al trattamento dello straniero, l’art. 10 della Costituzione sancisce l’obbligo per le leggi nazionali di conformarsi alle ‘norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Quali sono queste norme? Si tratta di norme di diritto internazionale consuetudinario, nate inizialmente come prassi nei rapporti tra i diversi Stati nazionali e poi ritenute universalmente vincolanti (c.d. ius cogens). Tra queste vi è l’obbligo di tutelare la vita e la sopravvivenza di qualunque persona si trovi in difficoltà in mare, prestandole soccorso e portandola in salvo. Nel 1982, tale norma consuetudinaria è stata inserita nel Trattato ONU sul Diritto del Mare (art. 98, UNCLOS) ed oggi vincola il legislatore italiano anche ai sensi dell’art. 117 Cost. che fa riferimento agli ‘obblighi internazionali’. Altra norma internazionale di rilievo per il caso che ci occupa è il divieto di trattamenti disumani e degradanti dell’art. 3 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. Tutte queste norme devono essere rispettate anche dalle leggi interne (art. 117 Cost). E difatti, lo stesso ‘decreto sicurezza bis’ (artt. 1 e 2 D.L. 53/2019) entrato in vigore lo scorso 15 giugno fa salvi ‘gli obblighi internazionali’ contratti dall’Italia. Dunque, posto che le circostanze concrete riguardanti il caso Seawatch sono ancora in fase di accertamento da parte della Procura di Agrigento, i giudici chiamati a verificare la sussistenza di una responsabilità penale in capo ai protagonisti della vicenda dovranno considerare quali parametri normativi sia i reati previsti dal diritto interno eventualmente contestati (quali ad es. l’art. 110 del Cod. Nav.) sia la norma internazionale sull’obbligo di soccorso in mare che, essendo diventata norma di rango Costituzionale, impone di essere considerata. Per fare ciò, vi sono almeno due soluzioni interpretative possibili: innanzitutto il diritto penale italiano scrimina chi ha commesso un reato perché costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un grave danno alla persona (art. 54 c.p.), come può ipotizzarsi nel caso Seawatch, - soluzione, questa, che non scomoderebbe neppure norme internazionali – ma vi è anche un’altra via, in quanto l’art. 51 del codice penale scrimina altresì chi ha commesso un reato nell’adempimento di un dovere  derivante da una norma giuridica, norma che può essere anche di rango internazionale, quale ad es. l’art. 98 UNCLOS (art. 51 c.p.). In conclusione, il nostro ordinamento non può contraddire sé stesso. Pertanto, l’avvenuto rispetto degli obblighi contratti dall’Italia sul piano internazionale, sempre ove venga accertato e riscontrato verificando le condotte concrete dei responsabili delle ONG, porrà di certo alcuni problemi interpretativi, ma non potrà tradursi contemporaneamente in una responsabilità penale nel diritto interno”.

donne migranti 1Fake news e hate speech: la violenza sdoganata sui social

Bruna Mancini, professoressa di letteratura inglese, esperta di gender studies presso l’università della Calabria di Rende spiega: “Carola è un’immagine molto scomoda per vari motivi: incarna la questione legata ai migranti, rappresentando colei che li aiuta, si è messa contro l’attacco d’odio perpetrato dai media ed è una donna forte. La cosa grave è il modo in cui è stata attaccata che svela lo specchio impietoso di ciò che siamo oggi. Diciamo che abbiamo gli stessi diritti, che siamo democratici e egualitari invece basta vedere come vengono attaccate le cosiddette “minoranze”, le donne, i migranti o gli omosessuali per svelare che siamo diversi da come ci dipingiamo.  
Carola è una donna attaccata per essere donna, una novella “strega” che non si è fatta contenere. Stiamo assistendo ad una regressione: così come ai tempi di Emily Dickinson una donna che scriveva era considerata una puttana, oggi una donna che si ribella alle norme sociali subisce pesanti offese. La prima cosa che fanno gli uomini per attaccare una donna forte è rendere il suo corpo femminile debole facendo riferimento alla sessualità. Così come le donne migranti sono automaticamente viste come prostitute. L’incitamento allo stupro sui social viene sdoganato là dove è in sé una violenza gravissima che va punita perché offende la dignità e lede la libertà delle persone.
Eppure le stesse donne hanno criticato Carola perché, pur essendo una donna bellissima, non ha i canoni di bellezza dettati dall’alto: non si trucca, non ha le sopracciglia ad ala di gabbiano. Spesso ci si chiede perché le donne attacchino le donne: c’è il maschilismo interiorizzato per cui alcune donne sono le prime ad attaccare le donne che non si conformano al sistema maschile.
Va denunciato che ci sta sfuggendo qualcosa di importante: internet, come diceva il visionario Umberto Eco in tempi non sospetti – quando anche a me e a molti studiosi sembrava esagerato- è “lo spazio degli ignoranti” ovvero dà spazio a persone che vomitano parole. Chi scrive sui social pensa che tutti possano fare i giornalisti, i professori o i politici, ecco che vengono fuori le fake news, le false notizie, e l’hate speech, il linguaggio di odio. È arrivato il momento che le persone si prendano responsabilità di ciò che comunicano.
Di fatto, anche dall’alto, stiamo assistendo ad un attacco alle istituzioni culturali: sono all’ordine del giorno tagli alla scuola e all’Università. In questo modo è più comodo togliere voce a chi studia e approfondisce e che quindi potrebbe opporsi al populismo dominate. È populismo usare le paure delle persone che, meno hanno studiato più si lasciano manovrare. Spesso si usa il termine “professoressa” come un insulto alla donna e la cultura viene intesa come qualcosa di cui vergognarsi. L’unico modo per fare qualcosa è non fermarsi alle notizie su internet, ma formarsi e informarsi. Dobbiamo destrutturare il meccanismo dell’odio per distruggerlo. Quando si è aggrediti non bisogna cadere nella risposta che si abbassa al livello dell’attaccante, ma mantenere il proprio tono e spiegare con calma il proprio punto di vista. E se si assiste all’aggressione di una persona più debole nella realtà o su internet non bisogna lasciarla sola, ma farla diventare parte di un gruppo amichevole”.

Alessandra del Giudice