Donne, “Acrobate del tempo”

Intervista a Giustina Orientale Caputo, professoressa di Sociologia del Lavoro 

giustina orientale caputoLa Fisac ha organizzato per il 24 maggio, nella sede della Cgil di via Toledo 353, una conferenza sulla disparità di genere nel mondo del lavoro, con particolare riferimento al settore creditizio. Cogliamo l’occasione per fare il punto della situazione sulle diseguaglianza di trattamento delle lavoratrici con Giustina Orientale Caputo, professoressa di Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II di Napoli.
Locandina

Partiamo dai dati: qual è il gap lavorativo tra gli uomini e le donne, in termini quantitativi?

In Italia il gap salariale tra uomini e donne è inferiore al gap europeo. Le donne europee in media per ogni ora lavorata guadagnano il 18% in meno degli uomini, in Italia il 5% in meno (2008). A leggere questo dato potremmo pensare: “Di cosa dobbiamo lamentarci?”. Il problema è il criterio statistico di aggregazione dei dati della Comunità Europea che è troppo generale poiché mette insieme nel calderone le ore lavorate dal professore universitario e quelle dell’operaio, dell’impiegato e dell’imprenditore. E’ chiaro che ci siano delle distorsioni perché ci sono profondissime differenze di retribuzione tra la popolazione lavorativa degli uomini e quella donne, infatti la presenza delle donne varia molto a seconda del settore, della grandezza delle imprese, dell’età. Stabile è invece il fatto che in tutti i settori le donne trovino più difficoltà degli uomini nella progressione di carriera. Inoltre il tasso di occupazione femminile in Italia è molto più basso della media europea. Andando poi a guardare i casi specifici, prendendo ad esempio il settore bancario, che è di per sé un settore privilegiato che richiede un livello di studi universitario e con salari medio alti, scopriamo che in Italia nel settore creditizio rispetto ad altri paesi europei c’è una maggiore presenza degli uomini, che le donne bancarie sono mediamente più scolarizzate degli uomini ma hanno un inquadramento inferiore e hanno meno (anche se di poco) contratti a tempo indeterminato. Un dato che rappresenta un campanello d’allarme è quello della percentuale degli uomini con contratto part-time che è solo del 1,6% rispetto alla percentuale delle donne del 23,8%. Le donne occupate quindi hanno mediamente un livello di studi maggiore, ma il rendimento (l’incremento reddituale associato al livello di istruzione) del loro lavoro è più basso di quello degli uomini.

A cosa è dovuto questo divario?

I dati statistici sono la cartina di tornasole di un mercato del lavoro squilibrato, ma anche del rapporto tra tempo di vita e tempo del lavoro: in Italia e in particolare nel Meridione, così come nel sud del mondo, il lavoro riproduttivo di cura della casa e della famiglia pesa ancora sulle spalle delle donne. Questa distribuzione dei compiti affonda le radici negli anni ’60 del boom economico, quando in Italia assumiamo il modello di produzione fordista - taylorista e la grande fabbrica del nord impiega preferibilmente maschi capofamiglia, nel pieno dell’età, con capacità di grande resistenza alla catena produttiva che guadagnano abbastanza bene da mantenere tutta la famiglia e quindi le donne restano a casa a crescere i figli. Quando la prevalenza del modello produttivo industriale va in crisi, negli anni ’80, e al contempo le donne studiano di più, sentono il desiderio di emanciparsi ed entrano nel mondo lavoro, la struttura sociale ed economica italiana non è pronta. Se negli altri paesi il Welfare interviene a sostegno della famiglia con asili nido, sussidi, strutture per gli anziani, in Italia sono le donne a farsi carico di tutto questo lavoro casalingo, tanto che in un mio libro le ho definite “acrobate del tempo”. Quando le donne hanno scelto di emanciparsi hanno dovuto pagare lo scotto di fare due lavori: fuori casa e in casa.

C’è ancora un grande gap tra la percentuale di donne occupate rispetto a quella degli uomini occupati?

Si, soprattutto nel Mezzogiorno. Se si sta muovendo qualcosa sulla crescita dell’occupazione femminile e la differenza tra la percentuale di disoccupazione tra uomini e donne non è grande, la cosa grave è quanto ancora sia elevata la differenza nel tasso di partecipazione al mondo del lavoro, ovvero il numero di donne che sono attivamente presenti nel mondo del lavoro, soprattutto al sud, è mostruosamente più basso degli uomini. E’ l’effetto scoraggiamento: soprattutto in contesti svantaggiati e per mansioni che non necessitano di un titolo di studio elevato, anche mettersi alla ricerca del lavoro è un’azione che dopo diversi fallimenti si smette di compiere. E’ chiaro che le donne si rendono conto che le opportunità di lavoro sono poche e che le uniche che ci sono privilegiano gli uomini.

Sembra quasi che restare a casa con i figli sia più conveniente che lavorare?

C’è da dire che in un mondo in cui c’è un notevole abbassamento del reddito generale ed un incremento della povertà è sempre più necessario che entrambi i partner lavorino. Come sostiene la sociologa Chiara Saraceno: le famiglie in cui anche la donna lavora sono meno a rischio di cadere nel vortice della povertà e i figli sono più tutelati. E’ pure vero che soprattutto al sud, dove tuttora sono molto meno sviluppati i servizi di Welfare, il contesto del lavoro per le donne è particolarmente penalizzante. Ad esempio se l’uomo e la donna fanno il conto delle spese familiari, calcolano che è più conveniente che la donna vada in congedo parentale perché lei guadagna meno di lui e la famiglia perde poco, se è lui che va lui in congedo perdono tanto. Perciò anche se un po’ più di uomini stanno accedendo a questa misura, lo fanno con lentezza e vischiosità. Paradossalmente andrebbero dati maggiori incentivi per il congedo maschile proprio per incoraggiare la partecipazione degli uomini alla cura familiare. C’è una questione italiana di una struttura sociale produttiva che non riesce a fare il salto di qualità e far sì che l’impegno per la casa e la famiglia sia condiviso e congiunto. Basti guardare i dati sulla differenza di ore quotidiane dedicate per la cura dei figli e i lavori domestici tra uomini e donne italiani che lavorano entrambi fuori casa: gli uomini in casa lavorano in media un’ora e mezza a fronte delle 5 ore delle donne. C’è un abisso. Siamo ancora molto lontani da una ripartizione equa dei carichi di cura.

C’è invece qualche dato positivo da segnalare?

Come abbiamo visto, facendo un mero conto economico e considerando le diseguaglianze di reddito, quasi non varrebbe la pena lavorare, ma il lavoro è molto più del mero salario: è emancipazione, relazione, ruolo sociale, realizzazione personale per questo sempre più donne, soprattutto quelle con un titolo di studio più elevato, entrano e vogliono restare nel mondo del lavoro. Le donne oggi riescono ad accedere ovunque, anche in settori a prevalenza maschile come quello dell’ingegneria e l’incremento delle donne nel settore imprenditoriale è maggiore dell’incremento degli uomini imprenditori. Le donne che restano a casa per scelta sono poche e comunque pagano questa scelta perché il lavoro domestico non viene riconosciuto, a meno che non lo faccia una persona esterna a pagamento.  

Sarebbe necessaria una rivoluzione culturale?

La rivoluzione culturale deve essere guidata da una rivoluzione organizzativa, partendo dalla promulgazione di nuove leggi e dal miglioramento delle condizioni economiche che la possono determinare. Ad esempio aver introdotto le quote rosa sia nel settore privato che in quello pubblico, sebbene risulti talvolta anche per le stesse donne odioso perché sembra una dichiarazione di sconfitta, è invece, secondo me, una strada necessaria e che bisogna perseguire perché ci vorrà tanto tempo prima che il riequilibrio tra quote maschili e femminili si regoli naturalmente. (N.d.r: l’8 marzo scorso, un report di Oxfam aveva indicato nel 23% dello stipendio la differenza nella retribuzione tra generi. E aveva avvertito: serviranno ancora 170 anni per colmare il gap retributivo a livello globale, 52 anni di più di un anno fa)

Che tipo di Welfare potrebbe accompagnare il processo verso l’uguaglianza? Il reddito di cittadinanza che ha trainato la campagna elettorale dei 5 Stelle può essere una misura valida in questo senso?

Innanzitutto bisognerebbe introdurre strutture e servizi che consentano la gestione pubblica di minori e anziani, dagli asili nido a servizi di assistenza a domicilio, senza che vengano pagati a caro prezzo solo da chi può permetterselo, così come le donne non andrebbero penalizzate se decidono di fare un figlio. Ad esempio c’è un tentativo di creare degli ammortizzatori sociali per le donne precarie, ma questa misura andrebbe potenziata e stabilizzata. Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza è una misura di civiltà che siamo stati scellerati a non introdurre prima, ma non va intesa come misura alternativa al lavoro ovvero come un modo per rendere pigre le persone e pagarle per non fare nulla come pensano alcuni. E’ invece una misura di civiltà che serve a migliorare il benessere sociale delle persone e metterle in condizione di ricercare il lavoro. La proposta dai 5 Stelle non è quella di un vero reddito di cittadinanza, ma di un sussidio per chi si impegna a cercare un lavoro e viene quindi obbligato a non rifiutare le proposte. E’ un’idea di impianto neoliberista che sottintende che se i soggetti non lavorano è per colpa loro che se non si sono sufficientemente attivati a cercare opportunità. Si ritiene insomma che le persone abbiano un atteggiamento snobistico e non vogliano accettare di lavorare, ma ci si dimentica il primo vero problema: il lavoro non c’è. Il dato di fatto è che se andiamo a vedere non ci sono offerte. Chiunque non viva fuori dal mondo lo sa. Non a caso i centri per l’impiego, che dovrebbero mettere a contatto continuo offerta e domanda di lavoro, riescono ad occupare solo il 3% dei lavoratori. Se i centri per l’impiego funzionassero significherebbe che esiste una reale domanda di lavoro. Ma dove sono questi fantastici lavori che sono offerti e che fanno si che uno stia a casa? 

Alessandra del Giudice