La responsabilità sociale nel giornalismo

Ne parliamo con Domenico Iannacone 

iannaconeInviato di Ballarò e autore di Presa Diretta, ha scritto e diretto “I dieci comandamenti” su Rai 3 dal 2013 al 2018.  Domenico Iannacone dal 2019 è autore e conduttore di “Che ci faccio qui” che tornerà su Rai3 lunedì 30 novembre alle 23.15 . L’ascolto emotivo e la responsabilità civile sono nella sua natura e ne ha fatto il filo rosso del suo giornalismo. Scopriamo quali sono le storie di cui si prenderà cura prossimamente.

Per cinque volte gli è stato attribuito il Premio Ilaria Alpi. Nel 2015 ha ricevuto il Premio Paolo Borsellino per l’impegno giornalistico contro le mafie e nel 2017, con il reportage La rivoluzione industriale, il Premio Goffredo Parise. Con il documentario “Lontano dagli occhi” ha ricevuto, nel 2017, prestigiosi riconoscimenti internazionali.

A Napoli alla fine di questo settembre è stato insignito del Premio Amato Lamberti alla responsabilità sociale con la seguente motivazione: “Un modo di fare giornalismo basato sull’inchiesta, sulla capacità di scandagliare i territori e coloro che dentro di essi agiscono. Domenico Iannacone ha saputo rinnovare la tradizione dei grandi giornalisti meridionali, capaci di gettare uno sguardo critico sulle dinamiche ed i nodi del proprio tempo. Un giornalismo a tutto tondo, capace di informare, di raccontare, di arrivare sempre al cuore delle persone”.

Come hai accolto il premio Amato Lamberti?

Io credo che ci siano dei premi che in qualche modo sono molto uniti al lavoro che si svolge: quando il riconoscimento confluisce nei premi vuol dire che si sta operando bene. Per mandato umano ed esigenza professionale la responsabilità sociale l’ho avuta dentro e sto continuando a portarla avanti perché è un valore essenziale per la convivenza civile. Soprattutto in questo periodo non possiamo sganciarci dal meccanismo della responsabilità sociale, si può abdicare a tutto ma non a quello, diventeremmo negligenti, intolleranti e non saremmo una buona comunità. Se si rompe questo equilibrio si rompe la possibilità di avere un rapporto umano tra le persone.

Talvolta proprio nel giornalismo manca l’umanità. Tu che invece riesci a stabilire rapporti così intimi con le persone che incontri, ne hai mai nostalgia?

Paradossalmente le storie che prendo in cura e cerco di proteggere poi restano agganciate a me. Quest’anno farò quattro puntate di “Che ci faccio qui” che andranno in onda a partire dalla fine di novembre nelle quali riprenderò alcune storie che ho già trattato. Lavorerò sul corpo. Sulla strage di Viareggio che ha lasciato tracce fisiche sul corpo dei sopravvissuti. Lavorerò sulla sessualità incontrando Massimiliano Ulivieri che lotta da sempre per il riconoscimento della sessualità dei disabili. Racconterò di Egy Cutolo di cui avevo già parlato quando intraprese il percorso di cambiamento del sesso e che intanto si è sposata. La vita continua e un certo tipo di giornalismo deve continuare a raccontarla. Le storie non vanno spremute come limoni e abbandonate, se invece c’è questa continuità il servizio pubblico svolge un buon lavoro.

Cosa sbaglia il giornalismo, quando sbaglia?

Dovremmo fare una sorta di mea culpa professionale. Spesso le storie vengono raccontate in televisione mostrandole, quasi utilizzandole. Io dico che per raccontare una storia dietro la quale si nasconde una necessità o un bisogno bisogna sempre avere rispetto, non essere giudicanti. Le storie non devono mai essere manipolate, mentre spesso il giornalismo, televisivo e non, interviene in ciò che racconta per piegarsi al mandato di un format o di una testata. Questo è l’errore che non dovremmo fare.

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Più volte hai dichiarato che se non potessi essere libero non faresti questo lavoro. Oggi però spesso i giovani che vogliono fare i giornalisti sono costretti a scendere a compromessi…

Se non dovessi avere la libertà di poter svolgere in piena autonomia il mio lavoro lo lascerei, è vero. Ma capisco la pressione subita dai giovani perché mi hanno fatto ostruzionismo anche nelle sedi in cui ho lavorato. Oggi il vantaggio è che il mondo della comunicazione è più ampio, prima per fare comunicazione dovevi rivolgerti solo alla televisione. Oggi con il web ci sono più possibilità e c’è più libertà. D’altra parte c’è anche maggiore precariato e un giovane deve lottare di più per affermarsi. Io so che ci sono persone nella mia redazione che guadagnano poco. Certe volte mi sento in difficoltà: mi rendo conto che con le puntate che gli faccio fare non potrebbero fittare neanche una stanza a Roma perciò gli suggerisco di lavorare contemporaneamente anche in altre realtà. Ci vorrebbe una maggiore tutela dell’ordine dei giornalisti.

Tra le tante storie di cui ti sei occupato ce ne è una in particolare che porti nel cuore?

C’è una sorta di permeazione con le storie che racconto, difficilmente riesco a sganciarmi emotivamente. Mi piace raccontare i bambini. C’è una storia che mi è rimasta dentro. Al Corviale, un quartiere popolare di Roma, ho incontrato Shasia, una bambina di 12 o 13 anni che si è affacciata su uno spalto di un grande casermone e mi ha detto: “Vedi qui c’è un luogo immaginario bellissimo”. Quegli occhi mi hanno fatto capire che anche nei luoghi più brutti ci può essere qualcosa di miracoloso.

Ci sono altri progetti in cantiere?

Lavorerò sulla disabilità mentale. Su Rai3 a inizio gennaio in prima serata tratterò, a 40 anni dalla morte di Franco Basaglia, L’Odissea, recitata dai 21 attori del Teatro Patologico di Dario D’Ambrosi. Racconterò questa doppia odissea: quella dello spettacolo e quella incredibile del gruppo teatrale, dei ragazzi e delle ragazze con problematiche mentali che lo compongono. E’ molto interessante che la televisione pubblica si occupi di disabilità dopo tanto tempo.

Che rapporto hai con Napoli?

Sento un debito verso questa città. Se manco da tempo, dopo aver girato l’Italia per lavoro sento la necessità di tornare qui perché mi dico: “Ho bisogno dell’umanità di Napoli”.

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