Il lockdown fa male al cuore: i primi dati di una ricerca tutta napoletana

Ducceschi 2Il cuore non ha reagito bene al lockdown. Arrivano da Napoli i primi risultati di uno studio internazionale dal titolo “Impact of lock down effects on cardiac arrhythmias in patients with cardiac devices” (“L’impatto degli effetti del lockdown sulle aritmie cardiache in pazienti con impianti cardiaci”) che stabilisce come la clausura forzata in casa per due mesi a causa del rischio Covid-19, sia stata fonte di stress molto di più del lavoro o di altri fattori in periodi di normalità.

Ne parliamo con il dottor Valentino Ducceschi  del servizio di Elettrofisiologia Cardiostimolazione dell’ospedale Pellegrini di Napoli, coordinatore della ricerca.

Dottore come si è svolta la ricerca?

Abbiamo analizzato una popolazione di 300 pazienti, di cui 190 impiantati con il defibrillatore e 110 portatori di pace-maker. Il nostro obiettivo è di arrivare ad analizzare 500 persone.

Può chiarirci qual è la differenza tra un defibrillatore e un pacemaker?

Il defibrillatore è un apparecchio più completo, è in grado di prevenire eventuali aritmie maligne e si impianta in pazienti che hanno uno scompenso cardiaco avanzato, in pazienti con grave cardiopatia ischemica o con aritmie congenite, per prevenire aritmie maligne minacciose per la vita. Si impianta anche a pazienti con cuore strutturalmente sano ma che hanno patologie soltanto elettriche, come ad esempio la Sindrome di Brugada, per prevenire la morte improvvisa. A differenza del defibrillatore, il pacemaker non discrimina se un evento aritmico sia potenzialmente maligno o meno e corregge solo le bradi-aritmie da rallentamento estremo, che possono portare a un blocco cardiaco. Il defibrillatore invece corregge le aritmie maligne e funziona anche da pacemaker.

Come sono stati raccolti i dati?

Nel 70% dei casi i pazienti hanno ricevuto un controllo non ambulatoriale, mediante un sistema di monitoraggio remoto diffuso da molti anni e solitamente reso disponibile dalle case produttrici di defibrillatori. Si tratta di vere e proprie centraline consegnate ai pazienti impiantati e che trasmettono tutti i dati del cuore, giorno per giorno. I macchinari sono in grado di trasmettere sia parametri sul funzionamento elettronico del defibrillatore che eventuali eventi aritmici o di scompenso cardiaco legati al paziente. Sono stati analizzati i dati di eventi aritmici ventricolari trattati dai defibrillatori impiantati e anche gli eventi di fibrillazione atriale che vengono solitamente registrati dai dispositivi.

Quali patologie avete preso in considerazione?

Abbiamo considerato la tachicardia ventricolare, la fibrillazione ventricolare  e la fibrillazione atriale, che non è pericolosa per la vita ma espone al rischio di ictus perché, qualora si manifestasse, può creare coaguli che portano alla formazione di emboli molto pericolosi.

Quali sono i primi risultati dello studio?

Confrontando i due mesi del periodo del lockdown, con i dieci mesi antecedenti – un periodo naturalmente più lungo, analizzato applicando il metodo della “correzione” che considera l’incidenza per paziente per mese – abbiamo visto che l’incidenza delle aritmie ventricolari è stata del 4,5 per cento nel periodo di chiusura forzata per il Covid-19, rispetto all’1,2 per cento dei mesi precedenti, come pure quella della fibrillazione atriale che ha avuto un’incidenza del 7 per cento rispetto al 2,4 per cento del pre-lockdown.

Che cosa se ne deduce?

Si deduce che, nonostante ci si aspettasse che il lockdown potesse garantire una sorta di “protezione” per i pazienti affetti da patologie aritmiche, di fatto non è successo. L’idea era che, eliminate le componenti di stress legate alla vita lavorativa attiva e ad eventuali attività sportive, i pazienti chiusi in casa fossero in qualche modo più tutelati, invece si è verificato il contrario. Lo stress psicologico, per la paura della pandemia, assieme ad altri fattori come l’impossibilità di consultare il proprio medico di persona, magari per qualche aggiustamento terapeutico, fino al timore di andare in ospedale al sorgere dei primi sintomi. Tutti questi fattori legati al lockdown hanno inciso in maniera negativa sui pazienti.

Le centraline di monitoraggio servono anche per la prevenzione?

Si tratta di apparecchi con algoritmi molto sofisticati, in grado di predire anche un evento aritmico consistente: così, se ti accorgi in distanza che un paziente sta per avere un evento aritmico pericoloso, lo contatti, lo convochi in ospedale e aggiusti la terapia. È una cosa importantissima non solo per il paziente, ma anche per contenere la spesa sanitaria: costerebbe molto di più un eventuale ricovero.

Come si monitora il paziente a distanza?

Attraverso un apparecchio collegato telematicamente al defibrillatore, che ne rileva di dati 24 ore su 24. Purtroppo la Regione Campania non ha ancora previsto un DRG, un codice di rimborso per la struttura che impianta il dispositivo, per cui noi lo diamo in dotazione solo ai pazienti provenienti da zone disagiate, che non hanno la possibilità di venire facilmente in ospedale.

Cosa cambierebbe se la Regione lo prevedesse come prestazione sanitaria?

Ora tutto è rimandato alla buona volontà degli operatori sanitari e alla struttura che consegna al paziente il comunicatore a distanza. Come Aiac (Associazione Italiana Aritmologia e Cardiostimolazione) Campania ci stiamo battendo affinché questo genere di prestazioni vengano riconosciute ufficialmente come attività specialistiche a tutti gli effetti, soprattutto in tempi in cui la telemedicina è fondamentale per la prevenzione. Questo permetterebbe di prevedere dei turni di lavoro da parte dei medici o degli infermieri, solo per monitorare a distanza i pazienti portatori di defibrillatore o pacemaker. Si tratta di un tipo di prestazione persino superiore alla visita da vicino, perché viene prodotta giorno per giorno, attimo per attimo, giacché dal monitoraggio costante l’operatore può rilevare subito eventuali anomalie, e verificare se siano dovute a un cattivo funzionamento del dispositivo o alla situazione clinica del paziente, intervenendo immediatamente se necessario.

Quanti impianti ci sono a Napoli all’anno?

In Campania ogni anno si impiantano 3.500/4mila defibrillatori all’anno, a Napoli almeno la metà. Per quanto riguarda i pacemaker invece abbiamo 6000 nuovi impianti all’anno per la Campania. Possiamo dire che 1 campano su 1000 ogni anno mette un pacemaker, 1 su 2000 mette un defibrillatore.

Quali sono le fasce d’età maggiormente interessate?

Quelle dai 50 anni in su, in particolar modo dai 65/70 anni in su, ad eccezione dei pazienti che sono portatori di disturbi elettrici, che possono essere anche bambini.

Quali sono i sintomi da prendere in considerazione per riconoscere le aritmie?

Il sintomo fondamentale è la crisi di cardiopalma forte e veloce, che dura diversi minuti se non ore. Ci sono aritmie incessanti che alcuni pazienti non avvertono come tali, considerandole normali, non le percepiscono ma il cuore si affatica fino a sfiancarsi per aritmia.

Un altro sintomo può essere una sincope improvvisa senza prodromi, senza avvisaglie: bisogna sospettare che si tratti o tachi-aritmia o di bradi-artimia legata a un blocco del battito. La prima è un’aritmia maligna, bisogna consultare subito uno specialista oppure fare l’ablazione, un altro tipo intervento in cui si brucia la parte impazzita che scatena la tachi-aritmia.

Quali sono le patologie più frequenti al Pellegrini?

Sono quelle che portano a mettere un defibrillatore per scompenso cardiaco, le patologie cardiache avanzate o le patologie elettriche curabili con ablazione. Al Pellegrini facciamo qualsiasi tipo di procedura interventistica di aritmologia: circa 500 procedure interventistiche di artimologia all’anno, di cui 150 defibrillatori, 150 pace+maler e 200 ablazioni,  con pazienti che per un terzo sono pazienti che provengono da fuori provincia.

Siete in rete con altri centri?

Sì, collaboriamo con la cardiologia del Policlinico Federico II, dell’Ospedale Monaldi e del Fatebenefratelli.

Rispetto ad altri tipi di malattie cardiache che incidenza hanno le aritmie maligne?

In una struttura come la nostra specializzata in elettrofisiologia si fanno 300 impianti di defibrillatore.  Per gli interventi di emodinamica trasferiamo i nostri pazienti alla Cilinica Mediterranea per le urgenze e gli altri all’Ospedale del Mare. In tutto si fanno 1000/1200 angioplastiche all’anno,  le aritmie hanno un rapporto di 1 a 3 con l’infarto.

E la Brugada che incidenza ha?

Al Pellegrini gli impianti di defibrillatore per questa sindrome sono il 5/6 per cento del totale. è una patologia di nicchia per l’impianto di defibrillatore: per fortuna, perché riguarda soggetti giovani. L’unica certezza terapeutica è l’impianto del defibrillatore. Ci sono colleghi che lavorano in strutture convenzionate al Nord che propongono per i pazienti affetti da Brugada l’ablazione del substrato ma non c’è alcuna evidenza scientifica valida che confermi questa proposta terapeutica.

(Ida Palisi)

DucceschiValentino Ducceschi Napoletano, 52 anni, è specializzato in cardiologia dal 1996. Durante la specializzazione ha svolto un periodo formativo in Elettrofisiologia cardiaca interventistica e Cardiostimolazione in Inghilterra, presso il Freeman Hospital di Newcastle e successivamente presso il policlinico San Matteo di Pavia. È stato Dirigente medico di primo livello in Cardiologia dal 1999 presso l'Ospedale San Luca di Vallo della Lucania dove è rimasto fino al 2011, ottenendo dal 2006 l'Incarico Professionale di Alta Specializzazione in Cardiologia. Nel 2011 si è trasferito all'Ospedale Pellegrini di Napoli dove svolge il ruolo di "responsabile" del servizio di Elettrofisiologia Cardiostimolazione conferitogli ufficiosamente dal primario ma mai ufficialmente, per il blocco degli incarichi nella Asl Napoli 1. Dal 2003 è consulente in Elettrofisiologia cardiaca interventistica e Cardiostimolazione presso altri ospedali e cliniche della Campania.