“Abbandonati nelle campagne di Eboli”

Emblematico racconto dei profughi “accolti” dalla Protezione Civile.

rifugiati-2Potrebbe essere il simbolo di ciò che è stata la gestione dell’emergenza Nord Africa in Campania. A Eboli, in aperta campagna, lontano dal centro abitato, una quarantina di richiedenti asilo vive da sei mesi in due casolari diroccati.

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Finestre rotte, pioggia che cade dal tetto, bagni fatiscenti e immondizia non raccolta. Per riscaldarsi stufe alimentate a cherosene, che riempiono l’aria di un odore acre. Sono arrivati a Luglio del 2012 dopo essere stati spostati da alberghi adibiti a Centri di accoglienza che avevano deciso di non rinnovare la convenzione con la Protezione Civile. Mai nessuno è venuto a fargli visita. Gli unici contatti con l’esterno dipendono dai gestori della cooperativa che li ha avuti in affido. Arrivano due volte al giorno per i pasti, preparati da un ristoratore della zona. Pochi minuti e vanno via. Impossibile persino spendere i ticket di 75 euro che come previsto dalla legge gli vengono forniti ogni mese. Nell’arco di decine di chilometri non c’è un solo negozio convenzionato. 

Ci si arriva percorrendo una stretta stradina sterrata. Un cancello arrugginito segna il confine. Sul patio di una delle palazzine alcuni profughi giocano a biliardo. Salutano, ma preferiscono non parlare. Potrebbero avere problemi. Ad accompagnarci all’interno degli edifici è il ragazzo che ha denunciato la situazione. A Napoli era tra i richiedenti asilo più attivi nel pretendere il rispetto dei suoi diritti. Non si lascia intimorire dall’arrivo di uno dei gestori e ci accompagna nella sua stanza per raccontare. “Siamo totalmente abbandonati”, ci dice. E’ scappato dalla Nigeria e non vede l’ora che l’”incubo” accoglienza finisca: “Sono in Italia da un anno e mezzo e non sono ancora stato ascoltato dalla Commissione. Appena avrò i documenti andrò lontano da qui”. Ci fa da guida nell’edificio. In quella palazzina di due piani la sua è l’unica stanza abitabile. Le altre hanno i muri abbattuti, non ci sono finestre e con la pioggia il pavimento è trasformato in una piscina. Dappertutto ci sono calcinacci e immondizia. 

Nell’altra palazzina vivono tutti gli altri. Loro sono stati ascoltati già dalla Commissione. Quasi tutti hanno ricevuto il diniego. Ora hanno il permesso di soggiorno umanitario per un anno e aspettano di sapere dove potranno andare una volta che l’emergenza sarà finita. “Nelle nostre stanze il pavimento è fatto di ghiaia, e ci sono delle tavole per coprirlo. Piove dal tetto e fa molto freddo”, ci raccontano. L’aspetto esterno è migliore, la facciata appare intonacata di fresco. Impossibile verificare le parole di chi vive all’interno. Il gestore non ci consente di entrare.

Dei tantissimi servizi previsti dal capitolato ministeriale per l’accoglienza sembra non esserci traccia. Come del resto in tantissime strutture alberghiere trasformate in C.a.r.a. Interpellato al telefono il responsabile della cooperativa non ha voluto fornire alcuna spiegazione. Il ragazzo che ci ha fatto da guida, invece, ha ricevuto un ammonimento: se proverà di nuovo a contattare giornalisti sarà messo alla porta.

Mario Leombruno e Luca Romano

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