A. e il diritto ad avere un figlio

Storia di una giovane professionista napoletana

maternita-paternitaLa vita dovrebbe essere sempre più forte di tutto il resto, o almeno così dicono. La vita dovrebbe superare crisi e stagnazioni economiche, non fosse altro perché è praticamente scindibile da loro. La vita va, in un moto perpertuo che si rinnova e si arresta e poi ancora. C'è una particolare forma di vita, poi, il cui potenziale è, se possibile, ancora più ampio: è quella di un bambino che sta per nascere, nel corpo di una donna.
Poco importa se la donna, professionista trentenne, napoletana, per questo motivo non ha più un lavoro.

La storia di A. è quella di tante ragazze: dopo 5 anni di università, 4 di specializzazione, altri 3 spesi tra master, tirocini e primi lavori, molti non pagati, ha commesso l'errore di guardare alla sua vita privata, sentendosi in diritto di innamorarsi, sposarsi e costruire una famiglia: "Ero una lavoratrice autonoma, con partita iva. Messa accanto alla mia laurea e alle mie qualifiche, questa dicitura potrebbe far pensare ad una giovane donna intraprendente, battagliera. L'ho creduto anch'io, ma per poco tempo. Presto mi sono accorta di non avere alcuna scelta, nessuna tutela e ancor meno diritti, neppure quello di avere un figlio con serenità".

Ad A., in pratica, è stata indicata l'apertura di una partita iva come condizione per lavorare presso una struttura: "Giacché il contratto è oramai un miraggio, ho pensato che fosse il caso dare retta ai miei datori di lavoro e diventare, sulla carta, autonoma, nonostante l'aggravio economico fosse pesante e in realtà non fossi autonoma per niente". E' il dramma di tanti giovani, e di quel fenomeno, ancora poco noto, delle "false" partite iva. "C'era di buono - dice A. - che mi sembravano molto interessati a lavorare con me: apprezzavano il mio curriculum, il mio approccio".

Sin dal primo colloquio le viene chiesto conto dei suoi progetti privati e di coppia: "Era noto che io fossi sposata e mi è stato subito domandato se volevo avere figli o meno. Ho risposto che lo mettevo in conto e sono stata rassicurata in merito. Il mio capo è una donna: ne ero felice perché pensavo avesse compreso ancora meglio le mie speranze, ero molto rincuorata".

Purtroppo la situazione cambia bruscamente quando A resta davvero incinta: "Quando ho avvisato il mio capo, non ho ricevuto né complimenti né felicitazioni. Mi è stato semplicemente chiesto se volevo continuare a lavorare o meno. Ho detto di sì: gli orari e i miei compiti erano tali che avrei potuto tranquillamente essere una lavoratrice professionista ed una madre senza che ci fossero problemi. Tengo al mio lavoro: l'ho costruito dal nulla anno dopo anno, per più di 10 anni. Immaginavo di dover fare sacrifici, ma nella mia vita io li ho sempre fatti, non mi spaventano". Dopo due settimane in cui tutto pare procedere liscio, viene chiesto d A. un incontro formale in cui il suo capo le comunica che non intende più avvalersi della sua collaborazione: "Non vogliamo collaboratrici in stato interessante, questo mi ha detto la donna che mi aveva in un primo momento rassicurata. Le ho dato tutte le garanzie possibili, le ho spiegato che quel lavoro mi serviva, che la mia famiglia mi avrebbe aiutato con il bambino. Mi ha seccamente risposto che lei vuole poter disporre al 100% del tempo dei suoi sottoposti. Il suo era, a quel che ho capito, un problema di ordine morale: ad una donna non sposata e senza figli avrebbe potuto chiedere sempre più flessibilità, con me e il mio bambino, avrebbe dovuto avere più rispetto".

A. si è sentita ghettizzata, etichettata, perché a 30 anni vuole avere un figlio. Ha pensato ad azioni legali per rivalersi del suo diritto al lavoro ma non è sicura che la sua voce sarà ascoltata: "Mi ribellerei contro persone potenti, economicamente forti. Io di mio ho solo la professionalità, e a quanto ho capito, non vale nulla".

Raffaella R. Ferré

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