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Giovedì 28 Marzo 2024




Cinque registi migranti raccontano l’Italia

Intervista al professore Triulzi, artefice del progetto

benvenuti-in-italiaBenvenuti in Italia, un film realizzato da cinque registi immigrati per raccontare l’accoglienza nel nostro Paese. Il 27 gennaio alle 19 sarà presentato al cinema Astra di Napoli. Il professore di storia dell'Africa Alessandro Triulzi, che ne ha sostenuto la realizzazione dice: “Hanno usato gli occhi come uno scandaglio per rappresentare, a partire dalla propria esperienza, l’essenza della condizione umana”.

“L’idea è nata dalla necessità di rendere i migranti attori del proprio destino. E non, come spesso accade nel nostro Paese, oggetto di politiche discriminatorie, oppure, al meglio, dello sguardo benevolo di chi è sensibile ai loro problemi”, spiega il professore Triulzi, che coordina l’Archivio delle memorie migranti, un progetto finalizzato a raccogliere e custodire racconti, video, storie di persone che per un intreccio, di scelte e imposizioni, lasciano i propri paesi e approdano in Italia. “I registi italo americani con il loro talento negli anni 60 hanno contribuito a seppellire un immaginario negativo sui nostri connazionali immigrati. Lo hanno fatto però in un’epoca in cui molti degli stereotipi pregiudiziali erano già stati superati. Oggi, invece, i registi di questo e di altri nostri film si assumono la responsabilità di veicolare messaggi in controtendenza proprio nel momento in cui la questione dell’immigrazione è nell’occhio del ciclone”.

Di cosa parla il film?

“Benvenuti in Italia si compone di cinque cortometraggi, scritti, diretti e girati da altrettanti film maker migranti (Aluk Amiri, Hamed Dera, Hevi Dilara, Zagaria Mohamed Ali e Dagmawi Ymer). Hanno lavorato insieme prestandosi l’un l’altro sostegno nella realizzazione. Chi faceva da regista di volta in volta poteva contare sulla collaborazione degli altri nelle vesti di operatori o di fonici. Ognuno ha ambientato la propria storia nella città in cui è approdato in Italia: Verona, Venezia, Milano, Napoli e Roma. Oltre a raccontare la loro esperienza di vita da migranti il film offre uno sguardo più ampio sui territori in cui vivono”.

Come nasce l’idea di affidare loro la regia?

“Tutto è partito dalla registrazione di testimonianze di migranti. In questa fase  ci siamo convinti che fosse più utile lasciare loro la telecamera perché si raccontassero, facendo nostra l’idea di John Rush, l’etnologo francese inventore di questa forma di cinema partecipativo.  Volevamo che fossero prima di tutto loro a  rappresentare la propria condizione, senza medium, rompendo così lo schema di una rappresentazione mediatica che oscilla tra  criminalizzazione e  paternalismo”.

Può il cinema aiutare l’integrazione?

“Il cinema può arrivare lì dove studiosi, operatori sociali e soprattutto politici, per disinteresse o incapacità, non riescono. Le immagini sono in grado di veicolare molto più delle parole il racconto della condizione dei migranti, costituiscono un mezzo più efficace perché più comune, di approcciare un pubblico ancora impreparato, per reticenza, diffidenza, paura o rimozione alla tensione civica, umana, imprenditoriale, creativa che c’è dietro al fenomeno dell’immigrazione.

I registi avevano già lavorato nel cinema prima di approdare in Italia?

Nessuno aveva una confidenza già acquisita con la macchina da presa, ma tutti avevano mostrato grande interesse  per la prospettiva di raccontare dal proprio punto di vista interno il fenomeno migratorio. C’è stato prima un lavoro preliminare di preparazione con corsi di formazione. Quando hanno acquisito le competenze necessarie per servirsi del mezzo espressivo hanno cominciato a girare. Il successo ottenuto con la prima esperienza di “Come un uomo sulla terra” (documentario di Andrea Segre, Riccardo Biadene e  Dagmawi Ymer, uno dei registi di Benvenuti in Italia che raccontava il tragico viaggio dei profughi eritrei attraverso il deserto e il mare n.d.r) ha rafforzato la convinzione dell’importanza di questo lavoro. Sono film che dovrebbero guardare tutti, attraverso le storie che raccontano, le loro paure, il loro dolore, le loro speranze, si può coglierla radice stessa della nostra stessa condizione umana”.

Luca Romano

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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