“No al Cie di Santa Maria Capua Vetere”

L’avvocato Cristian Valle lancia l’allarme: “Riapre un simbolo di violenza”.

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“Occorre mobilitarsi per impedire che il Centro di identificazione ed espulsione di Santa Maria Capua Vetere riapra”, Cristian Valle, avvocato esperto di immigrazione, contesta la decisione del Governo che, per l’adeguamento di quello che dovrebbe essere il primo Cie in Campania, ha stanziato 10 milioni di euro. E sul nuovo regolamento di gestione dei Cie, proposto dal ministero degli Interni, spiega: “L’Italia continua a ignorare le direttive europee sul rispetto dei diritti dei migranti”.

La caserma “Andolfato” di Santa Maria Capua Vetere è già stata un Cie nel 2011, quando fu riattata in fretta e furia in occasione dello sbarco dei tunisini all’inizio della cosiddetta “Primavera Araba” e alla vigilia dell’ “Emergenza Nord Africa”. Fu chiusa dopo un anno a seguito di rivolte e polemiche,  Cristian Valle è tra i pochi avvocati ad essere entrato nella struttura all’epoca. Quale era la situazione?

“Fu una vergogna dal principio. Circa 250 tunisini erano stati portati lì dopo essere sbarcati a Lampedusa per essere ospitati. Poi dalla sera alla mattina la caserma fu trasformata in Cie, e i migranti da ospiti divennero all’improvviso reclusi da espellere. Chiedemmo alle autorità di polizia a che titolo fossero stati trattenuti in precedenza per una settimana e, in udienza, davanti al giudice, ci fu risposto che non li avevano lasciati uscire semplicemente perché non lo avevano chiesto. Una palese menzogna dal momento che ancor prima che la struttura fosse commutata in Cie in tanti avevano provato a scappare scavalcando le mura della caserma ed erano stati fermati. Dallo Stato di diritto che impedisce di privare della libertà una persona per più di 48 ore senza provvedimento giudiziario, si passò di fatto a uno Stato di polizia”.

Quali erano le condizioni di reclusione?

“Furono sistemati in tende sotto un sole cocente, all’inizio non c’erano neppure i letti. Per usufruire dei servizi igienici, posti all’esterno di un recinto, occorreva fare lunghe file, c’era chi si appartava e consegnava i propri bisogni a scatole di cartone; la distribuzione del cibo non teneva conto delle esigenze alimentari dettate da fede religiosa o da intolleranze;  le rivolte venivano sedate in maniera a volte brutale. Abbiamo denunciato tutto. Fu una gestione disastrosa, costata milioni di euro: al di là delle spese di adeguamento, tantissimi soldi furono spesi per il personale di servizio, le forze di polizia, l’apertura di un ufficio del tribunale all’interno della struttura, il presidio e il personale medico.  Uno sperpero di denaro pubblico che ha prodotto violazioni e inefficienze su cui sarebbe doveroso indagare”.

Come si arrivò alla chiusura?

“Noi avvocati ottenemmo dal Tribunale la sospensione delle procedure di identificazione e espulsione. Poi a seguito di una rivolta scoppiò un incendio su cui sono ancora in corso indagini e la Procura pose sotto sequestro la caserma. Ma mi preme sottolineare che i duecento tunisini, rinchiusi per un anno,  hanno poi ottenuto il permesso di soggiorno umanitario. Solo una decina lo ha però ritirato, quasi tutti sono scappati subito via dall’incubo Italia. Avrebbero potuto chiedere risarcimenti milionari per ingiusta detenzione”.

Cosa pensa della decisione di riaprire lì il Cie a distanza di due anni?

“Una decisione assurda, la caserma è diventata un simbolo negativo.  Occorre fare pressione perché ci sia una marcia indietro. L’Italia dimostra ancora una volta di non rispettare le direttive europee in tema di immigrazione. Ampliare la disponibilità di posti dei Cie significa considerare la reclusione come l’opzione primaria. L’Europa impone invece procedure completamente inverse: in primo luogo l’invito a tornare in patria da soli, poi il rimpatrio forzato e solo come ultima istanza il Centro di identificazione”.

Dal ministero degli Interni è venuta però una proposta per migliorare la gestione e le condizioni dei  Cie. Come la valuta?

“Premesso che il peccato originale resta il mancato recepimento delle direttive internazionali, e quindi l’idea che l’irregolarità debba essere trattata con una forma di detenzione amministrativa molto simile al carcere, nella riforma ci sono molte cose che non vanno. Si parla, ad esempio, proprio come avviene negli istituti di pena di isolamento dei violenti e di trattamenti premiali per i più collaborativi. Oppure si dispone l’apertura di uffici stabili del tribunale all’interno delle strutture, creando così le condizioni di un condizionamento del giudice da parte dei gestori e delle forze di polizia. O ancora che la mancata collaborazione nell’identificazione del Paese di origine debba essere scontata dall’immigrato, come avviene con i Rom non riconosciuti dalla Serbia pur essendo nati lì. In sintesi, al di là degli annunci sulla riduzione dei costi e la riduzione a un anno del tempo massimo di reclusione, le proposte non toccano i punti cruciali”.

Cosa occorrerebbe fare?

“Impedire l’apertura di nuovi Cie, consentire un accesso esterno a quelli già esistenti, che per ora è limitatissimo, creare albi specializzati tra gli avvocati in tema d’Immigrazione. E poi è francamente inaccettabile quanto avviene abitualmente per gli immigrati che dopo aver scontato una pena detentiva, vengono trasferiti nei Cie per essere identificati. Assurdo che negli anni in carcere non si accerti l’identità e li si costringa così a un supplemento di pena”. 

L.R.

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