“Togliere i figli ai boss?”

Ne parla Alessandra Clemente: da vittima a donna impegnata nel sociale

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Una maturità e una consapevolezza rare anche in età avanzata, e sviluppate di certo anche a causa del dolore incolmabile di aver perso sua madre, vittima innocente della camorra. Alessandra Clemente, sogna di diventare magistrato ed è impegnata nel sociale, ma è prima di tutto una giovane donna con la speranza di vedere la sua città e il suo paese rinascere.

Con lei, appena tornata da New York, dove durante l’estate ha studiato inglese, parliamo del nascere e crescere a Napoli, partendo dalla sentenza del Tribunale di Reggio Calabria emessa a inizio settembre dal magistrato Roberto Di Bella che ha privato la famiglia dell’affidamento del figlio di un temuto boss della ndrangheta. (Anche se i giornali hanno titolato “Togliere i figli ai boss”, di fatto la sentenza si riferiva ad un caso specifico: il minore, vivendo in quadro familiare "incapace di educarlo al rispetto delle regole e della legge", è stato affidato al servizio sociale per inserirlo in una comunità al di fuori dalla Calabria).

Cosa pensi dell’idea di togliere i figli ai boss della mafia?

Bisogna considerare il singolo caso. Non è mai una scelta indolore togliere un figlio alla propria famiglia, tuttavia ci sono alcuni casi in cui è indispensabile, soprattutto se è lui stesso a chiederlo.
Spesso i ragazzi che delinquono sono cresciuti accompagnando la madre a trovare il padre in carcere o dall’avvocato che lo difende: impermeabilizzati a quel tipo di esperienza, per loro la prigione diventa la “normalità”. Perciò la detenzione senza un percorso tratta mentale individuale non serve a molto.
Sono rimasta colpita da una madre di un detenuto di Nisida che mi disse: “Mio figlio deve uscire con la schiena dritta da qua. Non gli mettete idee strane in testa con i vostri progetti”. Ecco che se non si agisce in collaborazione con la famiglia, soprattutto con le madri, un ragazzo reinserito nel medesimo contesto sociale e familiare molto probabilmente tornerà a delinquere.
Nel carcere minorile di Nisida è stato realizzato un bellissimo progetto sperimentale con accompagnamento delle madri dei detenuti. Tuttavia per mancanza fondi si è interrotto.
Ci sono casi in cui è lo stesso ragazzo a volersi allontanare dal suo ambiente di provenienza, perché avverte come un pericolo tornare nel suo quartiere, frequentare gli amici di prima. Padre Fabio, il parroco che lavora nel carcere di Nisida ha aiutato diversi ragazzi ospitandoli nel suo convento dopo il carcere. Ma questo non deve e non può essere un caso isolato, dovrebbe diventare la norma. Per questo stiamo lavorando insieme alla garante per i diritti dei detenuti Adriana Tocco, per realizzare una casa di accoglienza per i ragazzi che dopo il carcere non vogliono tornare a casa.

Sei appena tornata da NY, come è stato tornare in Italia?

Andare all’estero ti apre sempre la mente. Sono stata tre volte a New York in due anni per studiare e perché ho amici che vivono là. La prima volta che ci sono stata mi accoglievano dicendo “Italia, mafia”, la seconda “Italia, Ruby” e quest’ultima “Italia, corruzione”. Ora che sono tornata sono venuta a conoscenza dell’ennesimo scandalo che coinvolge un partito politico italiano. Bisognerebbe fare una legge per impiegare nel sociale tutti fondi destinati ai partiti politici.
Per casi di corruzione o peculato che coinvolgono personaggi pubblici in America non si arriva dal magistrato perché la pressione dell’opinione pubblica è tale che il politico di turno si dimette immediatamente. Il magistrato peraltro è chiamato a giudicare qualcosa che non gli compete poiché il nostro codice non ha strumenti adatti per combattere la corruzione o il voto di scambio, se non quando certificato da uno traffico di denaro.
In America c’è una grande attenzione per il benefit, le donazioni per cause sociali, e quando ho raccontato la mia storia e l’impegno del Coordinamento dei famigliari delle vittime innocenti di mafia sono stata presa in grande considerazione. Basti pensare alla copertina dedicata dal New York Times a Silvana Fucito (imprenditrice che ha denunciato il racket).

Che speranze hanno i giovani in Italia?

Poche. Penso a quanti soldi vengono rubati da chi dovrebbe occuparsi del bene dei cittadini, mentre non ci sono investimenti per la formazione e la promozione dei giovani. Mi ha colpito la storia di una giovane ricercatrice che ha inventato un frigorifero che funziona senza corrente e per un anno ha cercato di proporre il suo progetto in Italia senza risultati. Giunta in America è stata subito ricevuta con grandi onori dai gestori di Google Art che hanno apprezzato l’idea e finanzieranno il progetto.
Viviamo in un paese dove un parlamentare guadagna 6000 euro, mentre un assistente sociale non arriva a fine mese. Dovrebbe essere l’assistente sociale, impegnato a risolvere problematiche umane difficili, a guadagnare quei 6.000 euro. Purtroppo gli stipendi sono tarati in base al prestigio delle professioni più che sui compiti svolti per il bene della società.
Oggi ci sono tante donne che scelgono di studiare per diventare magistrato, professione ritenuta di prestigio e conciliabile con i tempi di una famiglia, mentre prima era un valore diventare insegnante.
Quando un ragazzo arriva dal giudice significa che la società ha fallito. Ecco che bisognerebbe impiegare molte più risorse per far si che dal giudice non arrivi mai.
Eppure anche diventare insegnante è sempre più difficile e costoso, tra concorsi e specializzazione da pagare, e senza che venga tenuto conto del reddito. Un sistema antidemocratico, altra ragione che spinge tanti ad andare via dal Paese.

Da laureata in legge, cosa pensi della giustizia in America?

Mi ha colpito molto la tutela giuridica delle vittime di reato: in America usufruiscono di un accompagnamento psicologico prima, durante e dopo il processo. In Italia non c’è questa cultura della vittima. Penso ai processi che ho seguito con il Coordinamento dei familiari in cui i familiari sono costretti ad aspettare nelle stesse aule con coloro hanno tolto la vita al loro caro. Questo è avvenuto anche nel processo per l’assassinio di Teresa Bonocore, dove figlie e sorella della vittima aspettavano nella stessa sala d’attesa con la famiglia dell’assassino.
In America la giustizia è riparativa: per favorire il pentimento gli autori del reato vengono fatti incontrare con la parte lesa, ma con la presenza di mediatori e un’appropriata preparazione.
In America si tengono in gran conto anche le parti civili, mentre non di rado qui i giudici se ne dimenticano.
Ho incontrato diversi professori universitari della NY University e ho imparato tanto. Ma anche noi abbiamo qualcosa da insegnare: conosciuta la mia storia e l’impegno con Libera, mi hanno chiesto di tenere una lezione all’Università sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia. Sono rimasti esterrefatti. In America non c’è una legge che stabilisce la confisca e il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla criminalità.

Sei impegnata a fianco di giovani e bambini come presidente della Fondazione Ruotolo, quali sono i prossimi progetti?

Sosteniamo “Radio Siani” che sta formando giovani per la realizzazione di “Radio Legalità”. Si avvertiva a Napoli un vuoto per quanto riguarda l’impegno civile attraverso la musica: mentre il nord vanta una tradizione di gruppi musicali con testi socialmente impegnati, a Napoli la musica in alcuni casi è veicolo di contenuti camorristici. Ecco l’idea di formare gratuitamente ai mestieri radiofonici: speaker, giornalisti, ma anche musicisti capaci di trasmettere valori positivi. La radio sarà ospitata dalla Gloriette, sebbene il bene confiscato alla camorra a Posillipo, attualmente non sia utilizzabile poiché costruito in modo abusivo. Cosa di cui per anni non ci si era accorti quando il bene era nelle mani della camorra. E’ il paradosso di tanti beni confiscati gravati da ipoteche. Come giustamente dice Don Luigi Ciotti -presidente di Libera- : “le banche dovrebbero estinguere le ipoteche sui beni confiscati, visto che hanno prestato soldi a criminali quando non avrebbero dovuto, mentre ci sono famiglie umili che si vedono sistematicamente rifiutati i mutui”.
Un altro progetto che mi appassiona molto è quello che stiamo organizzando con Carlo Morelli, maestro del San Carlo, di creare un coro che mette insieme ragazzi dal Vomero a Scampia. Ancora una volta la musica può unire in modo positivo i giovani.

Alessandra Clemente, classe ’87, laureatasi in giurisprudenza all’Università Federico II di Napoli, e impegnata con la Fondazione Silvia Ruotolo in progetti per i giovani fuori e dentro il carcere minorile di Nisida, sta seguendo la scuola di specializzazione biennale in giurisprudenza, facendo pratica forense alla Fai (Federazione antiracket italiana).

Alessandra del Giudice

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