La corsa a ostacoli delle aziende confiscate

Riconversioni fallite  per la morsa di banche e creditori.

calcestruzzoSolo il 2 percento delle aziende confiscate sopravvive al mercato. Dove le mafie garantivano lavoro lo Stato rischia così di rappresentare il fallimento. Abbiamo provato a capire il perché attraverso le storie di tre imprese che tra mille difficoltà provano a resistere: “Le banche sempre disponibili nei confronti della vecchia proprietà con noi stringono i cordoni del credito”, denunciano gli amministratori giudiziari. “Servono nuove leggi per garantire il rilancio”, dice il giudice Raffaello Magi.

La Beton Me Ca di Vitulazio nella provincia di Caserta è un’impresa di calcestruzzo che impiega 36 dipendenti. Dal 2011 è stata posta sotto sequestro dalla Direzione distrettuale antimafia nell’ambito dell’operazione “Il principe e la ballerina” sull’oligopolio imposto dal clan dei casalesi alla filiera del cemento. Oggi la gestisce Gianluca Casillo, commercialista, nominato amministratore giudiziario dal tribunale: “Qui si produce il miglior calcestruzzo della zona, questa è un’azienda con grandi potenziali”. Eppure, un volume di affari di 4 milioni di euro all’anno con circa un milione e mezzo di commesse già aggiudicate per il 2013, non rassicurano sul futuro: “Negli anni passati la Beton Me Ca ha potuto contare su grandi iniezioni di denaro, oggi invece siamo in costante sofferenza di liquidità. Stiamo provando a rendere più efficiente il sistema produttivo per ridurre i costi e forse riusciremo a chiudere il bilancio in attivo. Ma potrebbe non bastare”, spiega Casillo. Fornitori e clienti non si sono dati alla fuga dopo l’intervento della magistratura. Anzi, continuano a garantire lavoro come in passato. Lo testimonia la frenetica attività nel cantiere. I problemi vengono dalle banche: “In particolare con un istituto di credito c’è un prestito che di soli interessi passivi ci costa 120 mila euro all’anno”, denuncia Casillo, “Ho proposto di estinguere il debito con dei fondi di garanzia a disposizione dell’azienda, ma la banca senza alcuna logica non accetta il rientro. Per pagare le rate siamo così sempre in sofferenza, e se ritardiamo un pagamento il nostro rating bancario ne risulta compromesso con l’effetto che anche altre banche non ci consentono l’accesso al credito. Una corsa ad handicap, impossibile così resistere a lungo sul mercato”.

Di traverso accade che si mettano anche le Istituzioni. E’ il caso della Green Line di Castel Volturno, azienda specializzata nello smaltimento rifiuti speciali. Solo sulla carta, però. All’indomani del sequestro, avvenuto tre anni fa nell’ambito dell’operazione Normandia, l’inchiesta della Dda che ha portato alla sbarra politici e “colletti bianchi” al servizio dei clan, l’Albo nazionale gestori ambientali del Ministero dell’Ambiente ha decretato l’esclusione della ditta. “Paradossale che la decisione arrivi con la gestione giudiziaria e la trasparenza che questa impone. Dopo tre anni pare che finalmente si stia per sanare questa clamorosa incongruenza. E’ stato sprecato tempo, ma non è mai troppo tardi”, dice Casillo. Oggi la Green Line impiega 6 persone, ma con gli impianti a pieno regime, i dipendenti potrebbero salire a 40. L’impresa resiste con il nolo dei mezzi e appalti per la disinfezione urbana,: di recente si è aggiudicato quello per le strade del Comune di Milano. Nella storia recente dell’azienda l’esclusione dall’Albo non è stato il solo ostacolo imprevisto. Dopo l’aggiudicazione di un appalto a Benevento, all’amministratore giudiziario giunge dalla Prefettura la comunicazione di un’interdittiva antimafia: “Non riuscivo a credere ai miei occhi, per fortuna è intervenuta la Dda e ha rimesso le cose a posto. Non chiediamo un occhio di riguardo particolare, ma quanto meno che non si commettano errori così marchiani”.

Alla Beton Campania di San Tammaro, altra azienda confiscata di calcestruzzo, un piano di rilancio lo propongono i sindacati. “Stiamo provando a costituire una cooperativa tra i dipendenti perché siano loro stessi a prendere le redini”, spiega il segretario regionale della Filca Cisl Giovanni D’Ambrosio, “chiediamo però delle garanzie dalle Istituzioni per garantire in qualche modo un rischio d’impresa più difficile del normale. Si potrebbe pensare a una piccola percentuale sugli appalti pubblici almeno nella fase di start up”. Da parte dei lavoratori c’è grande preoccupazione: “Se dovesse arrivare la confisca definitiva sarà difficile ripartire”, dice uno di loro con la garanzia dell’anonimato, “sono qui da quindici anni, ho sempre fatto il mio lavoro e basta. Ma alla soglia dei cinquant’anni ho paura per il futuro”.  Emblematica la storia della Beton, già confiscata una prima volta e messa all’asta. E poi nuovamente sequestrata sempre nell’ambito del inchiesta “Il principe e la ballerina” perché tornata, secondo la magistratura, nel controllo dei clan. “La difficoltà più grande è quella con le banche. Abbiamo grandi difficoltà ad accedere al credito”, dice l’amministratore giudiziario Tirone. Il commercialista punta l’indice sull’amministrazione del Fondo unico giudiziario, cassa nella quale confluiscono i soldi dei conto correnti sequestrati alle mafie: “Un miliardo e mezzo di euro gestito dalla Equitalia giustizia spa, che dovrebbe farli fruttare con investimenti finanziari. In un anno il tasso di rendimento prodotto è pari allo 0,10 percento, appena sei milioni di euro. Praticamente nulla a fronte di un costo dovuto dallo Stato alla Equitalia giustizia di circa cinque milioni. Se quei soldi fossero impiegati per rilanciare le aziende confiscate renderebbero molto di più in termini non solo economici, ma anche sociali”.

Una proposta di legge per destinare il Fondo unico a garanzia di credito per le aziende confiscate è venuta dalla Cgil. Una proposta che raccoglie il favore del giudice di Cassazione Raffaello Magi, il  pm  tra i protagonisti della lotta al clan dei Casalesi della procura di Santa Maria Capua a Vetere: “Ci siamo sempre impegnati affinché le aziende da noi confiscate continuassero l’attività. E i risultati conseguiti, in termini di conservazione di posti di lavoro, con una media superiore al resto d’Italia lo dimostrano”, dice il giudice,  intervenendo alla tappa inaugurale del Festival dell’Impegno civile promosso da Libera e dal Comitato Don Peppe Diana nelle terre confiscate ai boss, che si è svolta lunedì proprio all’interno degli stabilimenti Beton Campania. “Il problema più grande resta quello con le banche. Spesso registriamo grande diffidenza nei confronti dell’amministrazione giudiziaria, la sensazione è che diano per “cotte” le imprese sottratte ai clan e non può essere accettabile. Creare un fondo di garanzia potrebbe essere uno strumento utilissimo”, dice Magi, che sottolinea un’ulteriore difficoltà: “Spesso passa troppo tempo tra il sequestro e la confisca definitiva. E’ quel tempo il periodo più delicato, quello in cui si crea il vuoto attorno alle aziende confiscate, con i fornitori che si fanno pressanti e i clienti che spariscono. Occorre intervenire, anche in termini legislativi, perché attorno alle aziende confiscate si crei un sistema economico etico”.  

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