La solitudine dei rifugiati

Reportage dal più remoto C.a.r.a. in Campania

profughi01A San Prisco, provincia di Caserta, nelle campagne distanti chilometri dal centro abitato vivono da quasi un anno 80 profughi: scarsa assistenza e nessuna informazione. Tra di loro un gruppo di 33 somali, alcuni dei quali hanno già un riconoscimento da rifugiati rilasciato dall’Unhcr in Libia. I profughi: “Aiutate il nostro compagno, sta malissimo”.

“Non so cosa sia successo a mia moglie e ai mie figli, da tre settimane non riesco a mettermi in contatto con loro. L’ultima volta che li ho sentiti mi hanno detto che il villaggio era sotto attacco dei miliziani”. Un’ angoscia vissuta a migliaia di chilometri dalla sua famiglia e dalla sua Mogadiscio, rinchiuso in un isolatissimo Centro di accoglienza immerso nella campagna casertana. Non ha modo di avere notizie Joseph, ex soldato somalo, fuggito prima dalla guerra nel suo Paese e poi dalle torture in un carcere libico. Non c’è un collegamento internet, niente televisione e nessuno che gli dia informazioni. E’il leader del gruppo di 33 somali che insieme ad altri 60 rifugiati vivono da nove mesi nel più completo isolamento. “Mai visto un funzionario della Protezione Civile, o un avvocato che ci informasse sui nostri diritti”, spiegano i profughi.

Tra tutti gli alberghi trasformati in C.a.r.a per l’emergenza Nord Africa questo di San Prisco è un caso a sé. Per raggiungerlo occorre arrampicarsi tra gli ulivi lungo una stradina di 4 km che sale fino alle pendici di una montagna. Spostarsi è ogni volta un’impresa. In piccoli gruppi si avventurano in paese solo per acquistare un po’ di cibo di tanto in tanto. Delle proteste dei richiedenti asilo a Napoli e nelle altre città italiane qui non giunge neppure l’eco. “I ticket sono sufficienti solo per le ricariche telefoniche necessarie a tenere vivo il contatto con i nostri cari. E poi con quelli non possiamo acquistare i biglietti del treno e dell’autobus”.

“Ogni tanto viene un dottore a visitarci”, raccontano sovrapponendo le voci nella foga di comunicare all’esterno la propria condizione, “C’è chi soffre di dolori alla schiena, chi ha contratto infezioni, altri con problemi allo stomaco: per tutti – dicono sorridendo – la stessa medicina”. E mostrano una bustina di comune antidolorifico. Unica cura anche per un ragazzo che dal suo arrivo non esce dalla stanza: occhi arrossati e labbra biancastre, soffre di terribili emicranie  e sul cuoio capelluto e la pelle ha i segni evidenti di un’infezione. È soprattutto di lui che si preoccupano i compagni: “Sta malissimo, fate in modo che lo portino in ospedale”.

Nove mesi a mangiare e dormire. Solo una parte di loro è stata ascoltata dalla Commissione. E chi ha già raccontato la sua storia è ancora in attesa di una risposta. Eppure qui, come ripetono, “ci sono casi specialissimi”. Alcuni dei somali hanno persino ottenuto un riconoscimento di rifugiati dall’Unhcr dopo essere stati liberati dalle prigioni di Gheddafi. Un documento che per avere valore deve essere ratificato nei Paesi di approdo: “Si invita a riconoscere come Rifugiato il portatore”, c’è scritto. Mostrano quel pezzo di carta e si chiedono cosa ci facciano ancora quassù.

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