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venerdì 29 Marzo 2024




Storia di Fortuna

«Quando l'ho conosciuta, Fortuna era una giovane donna, sola con tre bambini, ancora bella, chiusa tra le quattro mura di una piccola casa da dividere con una sorella malata. Era impaurita, angosciata, consapevole di avere un problema. Non riusciva a darne una definizione tecnica, non sapeva di soffrire di un Disturbo Ossessivo Compulsivo, ma capiva che c'era qualcosa che non andava nei suoi comportamenti». Fortuna non permetteva ai suoi bambini di toccare il pavimento per timore dello sporco; lavava e puliva ossessivamente mobili ed utensili; gettava via quanto le appariva contaminato dall'esterno, fuori dal disinfettato mondo in cui viveva lei e i suoi bambini. Poi ha chiesto aiuto e ha incontrato Serenella Adamo, psicologa e dirigente dell'Uosm D.S. 25 dell'Asl Napoli 1 Centro: «Questa giovane mamma si era già rivolta a noi pur non essendo riuscita ancora a mettere a fuoco i suoi problemi; contemporaneamente è stata segnalata ai servizi sociali l'evasione scolastica dei bambini. Avere tanti pazienti porta a non avere sempre una reale percezione dei problemi, ma in questo caso abbiamo avuto una prova che se più soggetti operano assieme è possibile sperare in una risoluzione».

«Il nostro lavoro - spiega ancora la dottoressa - in casi come questo va necessariamente al di là della patologia. Quella va seguita nel tempo cercando di ridurre i danni e i farmaci. Ma noi abbiamo il compito di seguire anche nei passaggi, nelle strettoie della vita, siamo una specie di corrimano». Il vero lavoro con Fortuna è stato, dunque, renderla consapevole delle sue fragilità e del suo ruolo di madre e questo senza andare a stressare il nucleo familiare già in difficoltà. Difatti, l'approccio rivelatore in questa vicenda è la capacità di non distruggere la famiglia: deve esser apparso chiaro agli operatori che la capacità genitoriale di Fortuna non era messa in discussione in toto e che ad essere insidiata era la gestione della routine familiare più che l'attitudine e la competenza ad essere madre. Aiutare lei è stato aiutare i bambini senza staccarli, senza compromettere il rapporto intenso e profondo che si era creato con un piano di intervento volto a preservare non solo i minori ma anche la relazione madre-figli. «Oggi Fortuna sta molto meglio, è ancora seguita. I bambini, anzi, dovrei dire i ragazzi, sono cresciuti bene». Qual è l'insegnamento che si può trarre da questa storia? «Bisogna cominciare a pensare ad un approccio che punti all'essenziale ma che non sia scarno - spiega la dottoressa Adamo - , bisogna mettere assieme forze e sinergie, non essere rigidi. La chiave giusta è quella che mette in moto un setting di lavoro interdisciplinare. Ricordo un'esperienza di questo tipo, lavoravo con un gruppo di religiose in una comunità residenziale per madri e bambini, era il 1996. Il dato indicativo era la necessità che si coprissero più fronti con queste ragazze, assicurando da un lato il supporto psicologico e dall'altro la presenza vigile, affettiva, capace di rifornire emotivamente».

Raffaella R. Ferré

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