Liberarsi della strada: i percorsi di protezione

"Il nostro non è un approccio moralistico. Non indossiamo i panni dei salvatori. E'fondamentale che le persone contattate dai nostri operatori non si sentano mai giudicate". La dottoressa Enrica Di Nanni da otto anni è tra le responsabili del progetto della cooperativa sociale Dedalus contro la tratta. Coordina il lavoro degli operatori sul campo e segue le prese in carico di chi decide di dire basta allo sfruttamento. "Il nostro obiettivo è quello di offrire a donne e uomini che si prostituiscono la possibilità  di scegliere. Chi finisce sul marciapiede lo fa perché vittima di tratta, o perché non ha altro modo di sostentarsi, e sicuramente anche per scelta, non lo escludiamo affatto, ma sono casi rarissimi. Il nostro lavoro è finalizzato a dar loro, se vogliono, un'alternativa. E contemporaneamente a ridurre i rischi alla salute".

Distribuite profilattici alle prostitute e le aiutate nelle cure mediche. Così facendo non fate anche un favore agli sfruttatori?

“Distribuire profilattici o accompagnare le prostitute in ospedale per accertamenti e visite non può in alcun modo renderci complici del sistema di sfruttamento della prostituzione. Se non ci fossimo noi, semplicemente avrebbero un'opportunità in meno di accedere alle cure mediche e comunque continuerebbero a stare in strada. Il nostro lavoro è indirizzato in primo luogo a tutelare la loro salute e di riflesso quella dell'intera comunità. Basti pensare che la maggior parte dei clienti hanno mogli e fidanzate, esposte così inconsapevolmente alla trasmissione di malattie sessuali”

Qual è l'accoglienza che vi viene riservata quando avvicinate chi si prostituisce?

“Il lavoro degli operatori in strada è fondamentale. Di certo all'inizio, quando le conosciamo per la prima volta, le prostitute non ci accolgono a braccia aperte. Occorre tempo per conquistare la loro fiducia”

E come ci riuscite?

“In strada parlano poco. Edulcorano i racconti della loro condizione. Una breccia per capire le storie reali che nascondono si apre quando le accompagniamo all'ospedale. Nelle sale d'attesa si sentono più libere di parlare e confidarsi E quando sono veramente decise a denunciare chi le sfrutta le sosteniamo legalmente e psicologicamente”.

Solo il 10 percento delle persone contattate iniziano percorsi di presa in carico. Perché?

“Sono programmi di protezione dolorosi. Comportano una presa di coscienza di un passato di sofferenza e sfruttamento dalla quale deve emergere chiara la volontà di voltare pagina. Difficile decidere ad esempio di sottoporsi a terapie psicologiche. Ci sono donne che per cultura non ammettono assolutamente un tipo di rapporto terapeutico del genere. I programmi di protezione implicano poi un vero e proprio sradicamento, si è portati in strutture con persone che non si conoscono, sottoposte a regole. Non è assolutamente facile. Quando però completano il percorso, che dura un anno e mezzo, hanno la possibilità di ricominciare una nuova vita”.

Le ragazze che abbiamo incontrato con i vostri operatori appaiono tutte sicure di sé.

“E’ il più delle volte un meccanismo difensivo. La strada è un posto duro. Occorre assumere movenze e atteggiamenti adeguati, non mostrarsi deboli,  in un certo senso temprarsi. Anche l'abbigliamento e i modi spinti servono a questa funzione. Quando accompagno gli operatori che girano di notte con il camper vi assicuro che dopo tanti anni mi capita ancora di aver paura”.

Vi è mai capitato che si rivolgessero a voi anche i clienti?

“Certo. Hanno una sorta di sindrome da Pretty woman. Uomini, quasi sempre soli, che si innamorano di prostitute e ci chiedono di aiutarli a toglierle dalla strada. Spesso però si tratta di loro fantasie e basta”.

Cosa andrebbe migliorato nel servizio di supporto?

“Chi sfrutta affina costantemente gli strumenti di controllo. E siamo obbligati a un aggiornamento continuo dei nostri programmi e dei nostri approcci. Una cosa che però potrebbe aiutarci è dare continuità temporale ai nostri progetti. Da undici anni ogni anno dobbiamo ripresentare domanda di rifinanziamento. Sono procedure dispendiose e lunghe che sottraggono tempo al lavoro. Si potrebbe cominciare rendendole meno rigide”.

Luca Romano

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