“Costretti a lavorare con sempre minori risorse”

Intervista al direttore Gianluca Guida

gianluca-guidaDa 16 anni li chiama “i nostri ragazzi”, il direttore dell’IPM Gianluca Guida, nutre un’enorme responsabilità nei confronti dei minori detenuti, e lui la assume con consapevolezza e umiltà. La sua gestione è improntata all’ascolto e alla comprensione delle esigenze individuali. Per lui “il problema più grande, non è ‘dentro’ ma ‘fuori’ dove non ci sono realtà strutturate e istituzionali di reinserimento”.

Quali novità ha introdotto con la sua gestione?

“Io sono arrivato 16 anni fa quando l’istituto stava vivendo una fase di cambiamento. Ho trovato dei colleghi che avevano voglia di provare un percorso nuovo. Nonostante le vedute differenti abbiamo trovato una sinergia e una sintonia maturando insieme l’importanza di fare sentire accolti i ragazzi. Ciò che è cambiato è il tipo di approccio che parte del riconoscimento dell’identità dei ragazzi e del loro bisogno di esprimere potenzialità individuali. Questo ci ha permesso di attivare negli ultimi anni delle relazioni e delle reti che si sono trasformate in opportunità di crescita e di reinserimento”.

Qual è attualmente il rapporto tra numero dei ragazzi e i posti effettivi?

“Oggi Nisida ospita 60 ragazzi e 6 ragazze e la nostra utenza è quasi esclusivamente campana. Fino a qualche anno fa eravamo calibrati per ospitarne 32. Ma negli ultimi 3 anni il costante sovrannumero ci ha spinto gradualmente a modificare la struttura conservando però le stesse risorse economiche e l’unità di personale. Chiudere il numero di posti che poteva ospitare il carcere voleva dire immettere nel circuito dei trasferimenti molti ragazzi napoletani allontanandoli dalle famiglie e dai loro legami affettivi. Quindi abbiamo cercato di stringere la cinghia per garantire ospitalità a tutti. Così come cerchiamo di tenere a Nisida i ragazzi fino ai 21 anni perché sappiamo che il carcere per adulti è completamente diverso”.

Quanto costa un ragazzo allo Stato?

“Il costo è alto perché ci sono una serie di servizi obbligatori: dalla sicurezza, all’accoglienza, all’alimentazione sana e genuina. Oggi il budget viene quasi interamente utilizzato per queste voci. Non abbiamo grandi risorse per interventi di reinserimento. Con Comune e Regione c’è un dialogo aperto che però non ha ancora raggiunto risultati soddisfacenti.  Ad esempiola Aslci ha assegnato un solo psicologo, riducendo il numero dei consulenti tecnici che in precedenza erano tre. Direttive ministeriali nazionali stabiliscono invece i parametri per la presenza di forze di polizia e educatori. E siamo in sotto organico sia per quanto riguarda le forze di polizia, sia per quanto riguarda gli educatori.  Avremmo bisogno di altri 2 educatori e di un turn over con nuovi educatori”.

Le ragioni più diffuse che li portano a commettere reati?

“Sicuramente soddisfare bisogni che loro ritengono prioritari: un paio di scarpe di marca piuttosto che un indumento firmato o la vacanza a Ibiza. Spesso i ragazzi che arrivano qui  sono poco più che adolescenti: molto confusi nei loro sistemi valoriali, poco razionali nelle scelte, senza progetti di vita chiari. Credo che incida in modo determinante il modello di vita trasmesso dai media: quello dell’individuo apprezzato, riconosciuto, che ha una bellezza fisica e gode di benessere economico. I ragazzi sono portati a imitarmi e, purtroppo, essere assoldati dai sistemi di criminalità organizzata diventa una scorciatoia. Un fenomeno sempre più presente anche nella borghesia medio-alta, questi modelli sono trasversali”.

I reati e la provenienza dei ragazzi sono cambiati negli anni?

“La provenienza è sempre quella dai ceti meno più poveri. Per i reati un piccolo cambiamento c’è stato: da una parte  rimangono alti i reati contro il patrimonio, dall’altra aumentano i reati contro la persona. Sono ancora un volta frutto di un peggioramento del back-ground culturale”.

Quanti ragazzi riescono a reinserirsi e quanti tornano a delinquere?

“Il fenomeno della recidiva è delicato da interpretare al di là dei dati: i numeri non sono indicativi rispetto alla riuscita del progetto di reinserimento perché molto spesso più che recidiva, il ritorno in carcere è un’esecuzione penale che scatta con tempi ritardati. Il reinserimento dei ragazzi è graduale e ha bisogno di tempi di maturazione; l’importante è che al momento dell’uscita il ragazzo abbia un budget di esperienze positive da mettere a frutto”.

Dopo il carcere la legge non prevede alcuna forma di accompagnamento all’esterno?

“La re-immissione nella società è la fase più delicata, quella in cui il ragazzo non può essere messo direttamente in contatto con la sua realtà di origine. È come buttarlo in mare dicendogli: ‘Ora hai imparato a nuotare, nuota!’ ma il mare può essere tempestoso e può prevalere in quel momento. L’uscita dal sistema criminale non è tanto rinunciare a una posizione nel sistema quanto liberarsi da una cultura di appartenenza modellata su valori antitetici rispetto a quelli che noi cerchiamo di trasmettergli. Il bisogno che ci rimandano non è quello di protezione fisica perché facendo ancora parte della manovalanza, non rischiano la vita se scelgono di uscire dal sistema. Quello che ci chiedono è avere un sostegno certo da parte dello Stato. Da questo punto di vista non ci sono realtà strutturate e istituzionali di reinserimento. Un ruolo in questo senso dovrebbero averlo i servizi sociali territoriali, ma ci rendiamo conto che l’emergenza sociale è tale che questa sfera di intervento è difficile da seguire”.

Restate in contatto con i ragazzi usciti dal carcere?

“La nostra competenza per la legge finisce con l’esecuzione penale. Ma da quattro anni abbiamo deciso comunque di mantenere uno sportello aperto con chi decide di restare in relazione con noi. In questo momento abbiamo un feed-back diretto con una decina di ragazzi che sono riusciti a reinserirsi concretamente, però ci arrivano anche notizie di ragazzi con cui non abbiamo mantenuto una relazione diretta, che sappiamo essere usciti dal sistema criminale”.

Quale è la molla che consente il cambiamento una volta fuori?

“La maturità. Il cambiamento avviene quando i ragazzi prendono consapevolezza della poca fondatezza delle prospettive cui si erano dediti, quando capiscono che quel benessere fittizio che gli veniva fatto intravedere non può soddisfare il loro bisogno di felicità”.

Cosa si può fare di più?

“Concretamente bisogna creare un tessuto che sia un po’ più organizzato all’accoglienza. Trovare imprenditori sensibili e attenti a svolgere un ruolo di accompagnamento per i nostri ragazzi che possono rispondere anche meglio di altri a un’opportunità che gli venga offerta. C’è bisogno di investimenti economici e umani affinché i ragazzi si sentano motivati a uscire fuori dai vincoli dell’appartenenza e trovare una società accogliente. Ci vogliono uomini e donne che sappiano stargli accanto meglio e con più continuità di quelli che li cooptano in un sistema criminale”.

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