Riconoscere, denunciare, chiedere aiuto

adriana di colandreaLa storia di Adriana Di Colandrea, donna forte e coraggiosa che ha denunciato il suo ex marito per le violenze subite nel corso del matrimonio: la sua storia è quella di una persona che non ha abdicato alla possibilità di non essere più vittima, disegnando con fiducia e impegno un percorso di libertà ed emancipazione.

L’Ami -  Associazione matrimonialisti italiani è un’associazione che si occupa di diritto di famiglia: tra i suoi scopi c’è quello di promuovere un approccio multidisciplinare di tutti i professionisti che dovrebbero cooperare per sostenere la famiglia nel momento della crisi. Ma anche quello di aiutare i minori e le donne. Durante la giornata del 17 marzo, dedicata ad una trattazione sulla violenza di genere con il coinvolgimento, in mattinata, di scrittori e licei, e, nel pomeriggio, di una serie di professionisti, anche la testimonianza di Adriana Di Colandrea, donna forte e coraggiosa che ha denunciato il suo ex marito per le violenze subite nel corso del matrimonio: la sua storia è quella di una persona che non ha abdicato alla possibilità di non essere più vittima, disegnando con fiducia e impegno un percorso di libertà ed emancipazione.

Adriana, accompagnata da Luigi Ciccarelli, giornalista che la sta aiutando a raccogliere la sua vicenda in un libro, e da Procolo Ascolese, avvocato, racconta: “Avevo 15 anni quando ho conosciuto quello che poi sarebbe diventato mio marito, e lui 28. Il suo è stato un corteggiamento continuo e costante lungo 3 anni, dopo il quale ho ceduto e a 19 anni, dopo un anno appena di fidanzamento, l’ho sposato. E, per la prima volta, mi sono trovata a dover rispettare le sue condizioni”. Una serie di regole imposte, alle quali Adriana non ha saputo e potuto reagire: niente abito bianco, niente chiesa, niente luna di miele. La negazione dei simboli tradizionali del matrimonio, però, non nasceva da una volontà di andare controcorrente o da un’ansia di modernità. Suo marito non era un uomo anticonformista. E lei non era la giovane moglie da trattare alla pari. Quella che si stava consumando, era solo la prima delle mortificazioni per una donna innamorata.

Adriana si trasferisce: un passo importante e voluta, giacché il matrimonio aveva la ragione pratica di poter condividere le giornate con più facilità. Ma da subito, in casa, si respira un’aria malsana. L’uomo, da compagno, corteggiatore, amante, si trasforma in un tiranno capace di controllare la “sua” donna anche nella gestione della casa e delle pulizie: guai a lasciare un secchio in giro dopo aver lavato i pavimenti, guai a dar lui testimonianza di un lavoro domestico appena concluso, guai a cucinare male o troppo o troppo poco, guai a lasciare i panni in lavatrice. Ma la prevaricazione psicologica è solo il preludio. Tutto accade una sera, quando Adriana è incinta. Stanca, dopo aver concluso la sua giornata controllata nei dettagli, si lascia andare a letto senza lavarsi prima i denti. E quando l’uomo che ha giurato di amarla e rispettarla si accorge di questa piccola, insignificante mancanza, cominciano i pugni al volto.  Ne seguiranno altre di umiliazioni, molte fanno male ancora oggi, al solo ricordo, al solo pronunciarle e noi non le pronunceremo perché la violenza di quest’uomo non merita nome. Adriana ha perso l’olfatto, il sonno, la curva naturale del naso. Adriana ha temuto per la sua dignità, per la sua vita, per quella del suo bambino. “Pensavo di poterlo cambiare, anche forte del mio senso della famiglia. Volevo salvare il nostro matrimonio, volevo salvare lui, e pensavo che un figlio l’avrebbe aiutato a capire”. Non è stato così.  Adriana perde e teme anche per la speranza di un futuro diverso.  E negli occhi del bambino che cresce e vede e comincia a capire, non legge più una possibilità per suo marito, ma solo paura e disperazione. Che si fanno sempre più reali e grandi, fino a quando la nostra piccola ma forte donna  decide di denunciare.

L’iter processuale oggi si è concluso con la sentenza della Corte di Cassazione, ma la vicenda ha avuto, nel corso del tempo, uno sviluppo sorprendente. Perché nonostante tutta la violenza subita, in un primo grado al Tribunale di Roma il marito di Adriana viene riconosciuto colpevole solo dei maltrattamenti, con una pena di 2 anni e la condizionale. È solo con l’appello, del procuratore generale e della parte civile, che la Corte arriva a riconoscere anche il reato di violenza sessuale  - evincendo che un essere umano sottoposto a tale barbarie e a tale clima intimidatorio non avrebbe accettato di avere rapporti con il suo carnefice pur non potendo sottrarsi alle sue vessazioni – e a condannare l’uomo a sei anni di reclusione, confermati in Cassazione.  Adriana oggi porta in giro la sua storia: per farla conoscere e anche per consumare il dolore, per raccontarlo non più da vittima, non solo da vittima, ma da donna che ce l’ha fatta. A far cosa? A riconoscere, a denunciare, a chiedere aiuto e sostegno: può non sembrare, ma sono operazioni che richiedono fatica e molto, molto coraggio.

La foto è dalla trasmissione di Rai 3 “Amore Criminale”  dove Adriana ha raccontato la sua storia.

Raffaella R. Ferré

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