Primi interventi di rifunzionalizzazione della città

italy 4882600 1920di Sergio D’Angelo

In più di un’occasione nell’ambito del dibattito pubblico che in questi ultimi giorni si è sviluppato, a proposito della necessità di definire una prima strategia di adattamento alla convivenza col Coronavirus, è stato giustamente osservato che l’obiettivo principale da mettere a tema il più rapidamente possibile è garantire, soprattutto nelle grandi aree urbane, più prossimità dei servizi e minori spostamenti.

Lo sforzo principale delle istituzioni deve essere quindi orientato al recupero di aree e all’individuazione di nuove infrastrutture, a partire dall’adattamento di quelle esistenti e degli spazi e dei servizi aperti al pubblico.

La nostra città è negli anni invecchiata, come tutti i principali territori urbani, e ha bisogno di adeguare molte sue strutture e infrastrutture. Napoli è piena di spazi ed edifici abbandonati. Un tempo erano scuole, chiese, conventi, mercati, caserme e molto altro ancora.

La città è disseminata ormai di spazi privi di funzione.

C’è stata negli anni una tale perdita di luoghi produttivi, sociali e culturali, che ha determinato un impoverimento delle pratiche sociali, culturali ed economiche.

Eppure non dovrebbe essere difficile comprendere che potremmo con facilità riutilizzare ciò che abbiamo in abbondanza.

Servono nuove destinazioni culturali e creative per far diventare questi spazi dei luoghi animati, di lavoro creativo e sociale, di accoglienza e di innovazione.

È possibile però mettere in moto il cambiamento senza margini di flessibilità?

Senza il superamento di vecchi vincoli?

Io penso francamente di no.

Mi riferisco alle cosiddette “attrezzature esistenti reperite - destinate” le cui proprietà per la maggior parte sono rimaste ad oggi inerti, alle strutture pubbliche o di uso pubblico abbandonate (dai palazzi anche monumentali ai capannoni dei depositi Anm), all’ampliamento a nuove destinazioni delle aree già individuate dal piano regolatore, agli immobili confiscati, fino a quelli acquisiti e da acquisire.

Per quanto riguarda la riclassificazione dei servizi, nell’ultimo ventennio si sono succedute norme di settore nazionali e regionali sulle scuole, sulla sanità, sullo sport, sui parcheggi che hanno stabilito livelli e requisiti, a volte quantitativi a volte qualitativi, senza che a tutto ciò corrispondesse una sistematica norma urbanistica complessiva.

Molte attrezzature ci sono ma non sono idonee e probabilmente occorre adeguarle anche se non sostituirle, accettandone, ove possibile, la semplice omologazione qualitativa e prestazionale. Si dovrebbe perciò affrontare la questione di una distribuzione dello standard dei servizi a livello locale e territoriale, ma articolandone i fattori nel rispetto delle norme settoriali e della evoluzione della domanda sociale.

In questo modo, si potrebbero offrire nuove risposte di comunità, proprio sui temi sui quali la politica e i governi incontrano le maggiori difficoltà.

quartieri spagnoliPenso ai Quartieri Spagnoli, a Forcella, alla Sanità ma anche alle nostre periferie.

Penso ai nostri ragazzi, ai giovani di questi quartieri. Penso alla necessità di offrire risposte di welfare che non sappiamo più dare, a opportunità di lavoro vero che non sappiamo più costruire, penso alla contraddizione di avere le università al centro storico e lo studentato a via Brin.

Penso alla necessità di dover progettare una diversa modalità di fruizione turistica, che tenga conto dei vincoli e delle restrizioni sanitarie con cui saremmo costretti a convivere. In questo senso il rinnovamento di spazi abbandonati e privi di destinazione può diventare il più potente strumento di rigenerazione sociale e di fertilizzazione di interi territori.

Uno strumento efficace di inclusione, che consentirebbe ai talenti di esprimersi e trovare una possibilità, ai ragazzi un’opportunità di crescita per uscire dalla condizione di emarginazione.